Al Teatro Stabile di Catania, è stato riproposto il testo, forse più conosciuto, di Luigi Pirandello, la tragedia in prosa, che Pirandello pubblicò nel 1920 e che venne rappresentata per la prima volta nel 1922, il dramma della follia per antonomasia.
Un uomo vive per vent’anni recluso in una villa nella convinzione di essere l’imperatore Enrico IV, uno dei personaggi centrali della storia del Medioevo. Questa convinzione gli è maturata in seguito a una caduta da cavallo durante una giostra in costume in cui lui, appunto, era mascherato da Enrico IV.
La caduta gli aveva provocato una amnesia della sua reale identità e una parziale visione della realtà.
La famiglia e gli amici lo avevano assecondato, mettendo in scena per lui una finzione con valletti e consiglieri segreti che contribuivano a renderla vera.
Il tema dei temi della produzione narrativa e teatrale di Pirandello: realtà e finzione, forma e vita, apparenza e identità, essenza e struttura. La follia, come nel Berretto a sonagli, è la dimensione, l’unica dimensione, che permette all’uomo di svelare la verità, di raggiungere in una epifania irrazionale, il nucleo identitario dell’uomo fuori dalla necessità del suo essere.
Dopo molti anni di questo gioco, Enrico guarisce e scopre di non essere Enrico; si accorge quale mistificazione gli sia stata proposta come verità e quale inganno e tradimento vi sia nascosto. La scelta atroce, a quel punto, lo porta a continuare per tutti il suo “teatro” e guardare da lontano la tresca della donna da lui un tempo amata, Matilde, l’arroganza dell’amante di lei, Belcredi, e il ricordo dolorosissimo di quel triste giorno quando cadde da cavallo e non per un incidente dettato dal caso.
Quando, a un certo punto, stanchi di questa “pagliacciata” tutti intorno a lui decidono di tentare di procurargli uno shock per recuperare il suo senno, la sua ragione, Enrico getta la maschera e rivela di non essere folle, di non essere più folle e di conoscere la verità e la vita che gli altri hanno vissuto in questi venti anni, mentre lui credeva e faceva credere di essere Enrico IV.
“La mia vita è questa! Non è la vostra! – La vostra, in cui siete invecchiati, io non l’ho vissuta…”
Al disvelamento può solo compiere quel gesto di vendetta meditato da tempo e uccidere il suo rivale. Ma l’assassinio non potrà essere punito. La follia salverà Enrico che resterà, necessariamente, pazzo, fingendo di essere pazzo.
Indosserà la maschera nuda per poter essere persona.
In questa bella edizione, il ruolo del protagonista è stato affidato a un vero mattatore della scena catanese, e nazionale, Sebastiano lo Monaco, guidato dalla mano del regista greco Yannis Kokkos (con il quale l’attore aveva già lavorato nel 2018 a Siracusa portando in scena Edipo a Colono di Sofocle). Mano sapiente che ha saputo calibrare verso la misura l’esuberanza dell’attore, sempre padrone della scena e catalizzatore, con tutta la sua energia, la voce, il portamento, dell’attenzione del pubblico.
Qui Lo Monaco ha scolpito un personaggio pacato, non istrionico, razionale senza concettismi, lineare nella mimica e nell’inflessione della voce, con una naturalezza inaspettata.
La regia di Kokkos ha portato la vicenda in un tempo identificabile dal alcuni elementi (i costumi, le musiche) degli anni Quaranta, e in questo Pirandello consente agli interpreti la massima libertà; ha valorizzato il ruolo dei valletti che sono diventati il vero demiurgo che costruisce il gioco. E’, infatti, da loro che comincia la rappresentazione nella prima scena che, con effetto straniante, porta lo spettatore nel meta-teatro della mascherata, partendo dalla banalità di un risveglio in una giornata qualunque e ponendo davanti agli occhi dello spettatore la pantomima del travestimento e del “gioco delle parti”.
Altrettanto corretta, anche se piuttosto rigida, ci è sembrata la lettura del personaggio di Matilde di Mariàngeles Torres.
Coinvolgenti e convincenti, proprio perché sorprendenti, i tre valletti: Claudio Mazzenga, Luca Iacono, Rosario Petix.
I tre, insieme a Lo Monaco, hanno regalato il momento più intenso di tutto lo spettacolo, quando Enrico racconta per primo a loro il momento in cui è guarito e la sua scelta di continuare “a vedere la luna nel pozzo”. Quella luna compare sotto forma di una luce che si accende alle loro spalle, cala lenta sul fondale nero, crea un alone romantico mentre Enrico racconta “A me bambino mi pareva vera la luna nel pozzo”
Quella luna è il sogno nel quale noi trasformiamo la realtà per vestirla degli abiti che vogliamo noi, di cui abbiamo necessità per riuscire a sopportare la vita senza impazzire.
Scenografia (curata dallo stesso Kokkos) e costumi (di Paola Mariani) sembrano complementari: stessi giochi di colore, stesse illusioni ottiche create da quinte con pannelli di specchio e travestimenti variopinti. Quasi a ricordarci figure comuni nell’immaginario collettivo -quelle dei giocolieri o giullari, i joker funamboli- quando si pensi alla follia.
Un effetto molto suggestivo è dato da un intervento musicale (a cura di Dario Arcidiacono) che sembra ricordare il suono di un pendolo, lo scandire del tempo che passa o delle epoche che si accavallano fra i momenti della finzione e i momenti della realtà. La realtà inafferrabile di Pirandello.