“Per me scrivere significa sedermi, far uscire tutti i pensieri e metterli nero su bianco su un foglio di carta. Ho sempre pensato che parlando di serie tv si possa riflettere su un sacco di cose della propria vita. È ciò che preferisco di questo genere, da guardare come una fonte di riflessione e crescita culturale”.
Serena Liggeri è una giovane adranita esperta di serie televisive. Ha venticinque anni, studia per diventare avvocato e scrive per uno dei siti più letti in Italia, Hall of Series. Pensa alle serie tv come un mezzo per esprimere il proprio stato d’animo, in maniera liberatoria. Il Corriere Etneo ha intervistato la super esperta di serie televisive.
La tua passione per le serie televisive la si deve a una serie in particolare?
Tutto è iniziato con “Buffy l’ammazzavampiri”, la prima serie in assoluto che ho guardato, quando avevo sei anni. Da piccola non amavo la televisione – neppure i cartoni animati – e non mangiavo nulla. Mia madre riusciva a farmi stare a tavola solamente quando c’era “Buffy”, ne ero totalmente innamorata. Non esisteva ancora Netflix, così come nessuna piattaforma streaming. Ogni settimana usciva un dvd di “Buffy” e mio padre me lo portava all’uscita da scuola, era il giorno più felice della settimana. Riguardavo ogni puntata venti-trenta volte. Ho iniziato a curiosare nel mondo delle serie televisive, ma per un po’ di anni non ne ho viste molte, mi piaceva guardare più volte le stesse cose. Successivamente, ho scoperto la serie “Grey’s Anatomy”, che ho visto quattro-cinque volte. Lavorando per “Hall of Series”, la visione delle serie tv si è intensificata, fino a trasformarsi in passione.
A cosa è dovuto il boom delle serie televisive? Ha a che fare con l’approfondimento del carattere di un personaggio?
Credo ci siano due generi di spettatori. Coloro che conoscono a memoria ogni episodio, interessati allo sviluppo dei personaggi e alla lingua d’origine – scegliendo prodotti più ricercati come “Breaking Bad” o “Lost” – e coloro che guardano più alla trama e all’azione veloce – preferendo, magari, prodotti quali “Squid Game” e “La Casa di carta”. Quest’ultimo tipo di spettatore è stato generato dal fenomeno delle serie. Oggi c’è più la curiosità di scoprire come si evolverà la trama e questo è dovuto al fatto che, non appena una serie esce, internet si intasa di meme, immagini e post che alimentano questa curiosità. È più un passatempo, la morale non è necessariamente attesa e cercata. Quest’attitudine la riscontriamo nei nuovi contenuti Netflix, piattaforma che punta oramai alle miniserie di quattro-cinque puntate – anche quando trattano di temi importanti, la serie “Unbelievable” è esemplificativa. Temi più leggeri vengono utilizzati per la produzione di serie più lunghe, come nel caso de “La Casa di Carta”, che parla di ladri che fanno una rapina e dove dietro non c’è una filosofia, il punto di partenza è molto più semplice ed è dedicato all’intrattenimento.
Che opinione hai de “La Casa di Carta”? È davvero solo intrattenimento?
Non parliamo di alta cinematografia, ma è sicuramente nato come un prodotto originale e avvincente, che nel tempo si è trasformato in qualcosa di poco realistico. Anche a livello di trama, la serie ha iniziato a seguire più il fan service, cioè il bisogno di accontentare, a tutti i costi, lo spettatore. Questo aspetto è adesso emerso ed è sintomo del fatto che “La Casa di Carta” non durerà nel tempo, anche perché il messaggio della Resistenza – che non è più la più grande poesia del nostro secolo – è passato in sordina, a favore di aspetti quali l’azione, il piano del Professore e le storie amorose. “La Casa di Carta” intriga perché è una fiction con una trama un po’ più interessante di ”Beautiful”. Un connubio di trash, battute che fanno ridere e momenti tragici e profondi, elementi che creano l’equilibrio perfetto tra un momento relax e una visione che sia, un minimo, un po’ più complessa intellettualmente. Per tal motivo, lo ritengo un fenomeno che è destinato a colare a picco, in tempo breve. “La casa di Carta” oggi c’è, domani – probabilmente – non se ne ricorderà nessuno. Con “Lost”, “Breaking Bad”, “Better Call Saul” e “Buffy” – serie del ’96 di cui ancora oggi si parla -tutto ciò non è successo.
Com’è nata la tua collaborazione con “Hall of Series”?
Mi è sempre piaciuto scrivere, a cinque-sei anni sognavo già di diventare una scrittrice e appuntavo sempre un sacco di pensieri e racconti sul computer. Nel periodo della pandemia, durante il primo lockdown, ero alla ricerca di un’attività che mi permettesse di impiegare tutto quel tempo libero e ho iniziato a propormi ad alcuni siti, senza dare troppa importanza. “Hall of Series” mi ha, inaspettatamente, risposto e, nonostante non stesse in quel periodo cercando collaboratori, mi fece fare un periodo di prova. Rimasero colpiti dal mio amore per “Buffy” e dalla mia passione per la scrittura. Il lavoro con loro si rivelò tutt’altro che un passatempo, fatto di scadenze e impegni. Rimanere nella redazione comporta dei sacrifici, un lavoro vero e proprio dove sono previsti dei premi. Ricevetti delle opportunità che non mi aspettavo, per tal motivo oggi la considero un’attività a cui tengo tantissimo e nella quale voglio investire. “Hall of Series” è una grande famiglia produttiva, con un meccanismo che funziona alla perfezione, studiato nei minimi dettagli e dove c’è un rapporto stretto tra i membri del team – cerchiamo di coprirci le spalle e trarre il meglio l’uno dall’altro. Un progetto che ambisce a diventare una redazione vera e propria, muovendosi verso quel cammino in maniera ben precisa: arrivano inviti alle conferenze con attori famosi, episodi in anteprima e collaborazioni con alcune case di produzione di telefilm.
Il tuo primo articolo sull’argomento a quale serie è stato dedicato?
Il primo articolo parlava di “Grey’s Anatomy”. Lo presentai alla selezione per “Hall of Series” e alla fine venne pubblicato. Non ricordo il titolo esatto, era qualcosa tipo “I cinque momenti più strazianti di Grey’s Anatomy”, serie tv che io conoscevo, letteralmente, a memoria. In questa situazione, scoprii di essere portata per i racconti tragici. Grey’s Anatomy rispecchia più il mio stile, essendo una serie colma di momenti di pianto e di riflessione. Non sono molto una tipa da articoli ironici, preferisco argomenti che toccano l’emotività.
A te piacciono le classifiche. Dimmi le prime cinque serie tv della tua personale playlist.
“Buffy” è immancabile in questa top five, innanzitutto per una questione emotiva. La ritengo la regina delle serie, è da qui che nascono tutte quelle che conosciamo oggi. A renderla così bella è il fatto di essere così vecchia, eppure così attuale. È ovvio che paragonata tecnicamente – fotografia datata, controfigure riconoscibili – a “Breaking Bad” ha tante cose che non vanno, eppure “Buffy” ha creato l’idea della trama orizzontale – e non più puntata per puntata – degli episodi musical e la trama di stagione. Consiglio tantissimo “Breaking Bad” a chi ama vivere le serie televisive. In questa playlist metterei anche “Il Trono di Spade”, pur non avendo apprezzato il modo di gestire le ultime stagioni e il finale. È innegabile, in ogni caso, il fatto che sia un capolavoro, con delle scene che da un punto di vista cinematografico sono qualcosa di spaventoso – come quella dell’esplosione del tempio, che ha delle inquadrature e un montaggio che al cinema avrebbero reso perfettamente. Inoltre, c’è un buon bilanciamento tra azione – e quindi coinvolgimento dello spettatore – e analisi del personaggio, accontentando i due tipi spettatori di cui parlavamo prima. Al quarto posto metterei, a pari merito, due sitcom che ritengo indispensabili e che guardo quando sono triste. La capostipite “Friends” – anche se quel tipo di umorismo non rientra sempre nel politically correct di oggi – e “How I Met Your Mother”, dove la commedia si unisce al lato romantico, in maniera singolare. “Sons of Anarchy” completa la mia classifica. Si tratta di un pesante e intenso colpo al cuore che – anche se vecchia a livello d’immagine – rappresenta un percorso di crescita e ci guida nel capire chi si vuole essere nel mondo e come affrontarlo. Se fosse stato girato con la tecnologia di oggi, sarebbe stata una serie super vista, secondo me. Tra l’latro, si ispira a Shakespeare.
C’è chi indica “Breaking Bad” come la serie delle serie. Sei d’accordo?
Potrò dire che “Breaking Bad” è la serie delle serie solo quando le avrò viste tutte. Probabilmente è considerata tale perché è una delle prime che è riuscita a mettere insieme una storia così originale e con degli ottimi effetti cinematografici. Ha delle immagini da paura, pur non essendo recentissima e non tralascia nessun dettaglio – dal simbolismo al colore. Ad oggi, è indubbiamente una delle migliori serie che io abbia mai visto, molto profonda e permette di fare un’analisi approfondita del personaggio. Molti non riescono a iniziarla perché le prime puntate sono lente. Non puoi guardarla per svago, è una serie impegnativa seguita da chi ama il mondo delle serie tv.
“Squid Game” ha conquistato spettatori da tutto il mondo. Qual è il tuo giudizio su questa serie di grande successo?
Ho adorato “Squid Game”, ma per dei motivi diversi rispetto a gran parte del pubblico. Mi riferisco al fatto che, spesso, lo spettatore si sofferma sul massacro, sull’azione. Per molti “Squid Game” è un posto dove tutti muoiono e da vedere è come tutti muoiono, ma per me è molto altro. Ho apprezzato la sottile denuncia sociale che si nasconde dietro al suo essere una serie d’azione. Nel finale viene dato un senso a ciò che è successo nel corso delle puntate. Inoltre, ci permette di indagare una società coreana – poco nota – vittima del divario economico, problema che conosciamo poco, ma che ci riguarda profondamente.”Squid Game” ci fornisce degli strumenti per analizzare a fondo l’animo umano e la sua reazione di fronte a uno dei problemi di sempre, ovvero i soldi. È un’analisi molto più complessa di quello che può sembrare.
A proposito della petizione lanciata da alcune associazioni di genitori e volta a bloccare “Squid Game”, perché ritenuto pericoloso per i bambini, i quali emulano, sempre di più, i giochi della serie: quanto c’è di legittimo in questa richiesta? Esiste già il parental control, in fin dei conti.
La nostra società ha sicuramente un problema: si parla di tutto e tutto è fruibile a tutti. Anche i bambini sono esposti a questo rischio, che non ha di certo creato “Squid Game”, il quale non è il primo prodotto violento. È banale e riduttivo additare la serie per un fenomeno che è molto più grande. Alcuni contenuti non adatti ai minori vengono tranquillamente mostrati in televisione alle tre del pomeriggio, mentre “Squid Game” è su una piattaforma a pagamento, che non dovrebbe essere accessibile a tutti. Se io genitore do a mio figlio un telefono dotato di internet – lasciandolo libero di fare ciò che vuole -, non posso lamentarmi se va a guardare “Squid Game”. Può anche trovare di peggio, come certi video di Tik Tok, di cui si è discusso tanto negli ultimi tempi.
Un’altra serie fresca d’uscita, che sta spopolando su Netflix è “Strappare lungo i bordi” di Zerocalcare. Cosa ne pensi della critica rivolta all’autore per aver scelto il romanesco come linguaggio?
“Strappare lungo i bordi” mi è piaciuta molto, anche se non amo tanto le serie animate. Guardo le serie in lingua originale, quindi non condivido tale critica. Se la serie nasce in romanesco, è giusto che resti tale, fa parte del suo essere. Sarebbe come vedere un film siciliano in italiano, perderebbe. Inoltre, è un romanesco comprensibile e ci sono a disposizione i sottotitoli. Se proprio non ti piace, non guardarla, ma Zerocalcare è libero di farla come vuole. Si dovrebbe fare meno polemica, in generale.
Una serie tv va guardata doppiata o rigorosamente in lingua originale con i sottotitoli?
Appartengo a una scuola di pensiero un po’ stramba, secondo la quale la serie tv va guardata due volte: la prima in lingua originale – perché ci consente di cogliere maggiori dettagli – e la seconda doppiata per comprendere meglio. In “Sons of Anarchy” i protagonisti sono motociclisti e utilizzano un gergo tutto loro, che nel doppiaggio non possiamo carpire, come nel caso dell’espressione “old lady”, utilizzata per indicare la moglie di un membro del club, che nella versione italiana viene impropriamente tradotta con “la mia donna”. Nelle sitcom è interessante notare come vengono riadattate battute, nomi di politici al fine di renderli più comprensibili al pubblico di arrivo. La lingua originale ci permette anche di comprendere la bravura di un attore.
Mi viene in mente Phoebe Buffay, personaggio della sitcom “Friends”, che nel doppiaggio italiano viene un po’ stravolto.
Esatto, anche in questo caso cambiano le battute e le voci. Phoebe, nel doppiaggio italiano, diventa un altro personaggio, è completamente diversa. Chiaramente, una lingua deve essere capita un minimo, altrimenti fai prima a vederla sottotitolata o in una lingua che ti è più familiare. Anche quando vengono rispettate le cadenze o gli appellativi utilizzati diventano degli stereotipi, è sempre meglio seguire una traduzione più fedele o direttamente la lingua d’origine.
Favorevole o contraria alle maratone per guardare una serie tutta d’un fiato? Un’opera artistica non va centellinata?
Dipende dal tipo di serie, dal modo in cui viene creata. Da piccola, guardavo una puntata a settimana di “Friends” o “Buffy” ed era bello così. “Breaking Bad” non riuscivo a guardarla per più di due puntate al giorno, perché era talmente piena di informazioni e dettagli da aver bisogno di riposare la mente. Le serie di oggi nascono per essere guardate come maratone. È proprio cambiato lo stile della puntata, dove, magari, per venti minuti non succede nulla e quindi sei costretto a guardarne un’altra per andare avanti con la trama. Mentre nelle serie di una volta, tu crescevi insieme al personaggio e se le guardavi tutte d’un fiato, perdevano di unicità. E ricordavi tutto, cosa che è impossibile con le serie di oggi. Anche il fatto di avere i comandi per passare al prossimo episodio con un click, per riprodurlo velocemente o per saltare la intro suggerisce che chi guarda deve sbrigarsi.
Ci sono elementi che permettono di riconoscere una buona serie tv? Lo showrunner, la casa di produzione, di distribuzione, il Paese, gli attori o altro?
Indubbiamente dipende dal tipo di prodotto che cerchiamo, ma ci sono alcuni fattori che indicano delle certezze, come la bravura degli americani, la fotografia, il paese d’origine della casa di produzione. Una serie spagnola, ad esempio, sarà – quasi sicuramente – un trash con una trama banale, come nel caso de “La Casa di Carta”. I prodotti americani sono quelli più certi e affidabili, ma dipende anche dall’autore, che passa però in secondo piano nelle serie tv. La piattaforma è un’altra certezza, a riguardo: se cerco una serie fresca, adolescenziale la trovo sugli original Netflix, mentre un capolavoro lo trovo sull’emittente statunitense HBO, per me fonte di garanzia. Gli attori ti guidano sul genere da scegliere, perché lavorano sempre agli stessi, mantenendo un certo standard. Voglio dire, non troveresti mai Meryl Streep in “La Casa di Carta”. La trama, invece, riguarda più un gusto personale. E poi ci sono quelle serie che restano impresse per i dialoghi strepitosi, come nel caso di “Le regole del delitto perfetto”.
Molti aficionados delle tv series americane reputano quelle italiane come la brutta copia delle prime. È realmente così o c’è qualche produzione interessante in Italia?
In Italia, le serie tv nascono – come molte altre cose – per essere una brutta copia di quelle statunitensi. Noi italiani siamo soliti imitare gli americani nelle cerimonie, nel cibo, nel vestiario. Le serie nostrane non riesco a guardarle, sono delle italianate spicciole. In “Squadra Antimafia” – e qui rischio il linciaggio -, la trama è sicuramente italiana, ma riprende uno stile che non è il nostro e ne viene fuori un prodotto fatto male, con attori che non sanno recitare e con sparatorie surreali. Tutto sarà dovuto, probabilmente, anche al fatto che gli americani hanno una disponibilità di budget superiore a quello italiano. C’è da dire che quando gli italiani realizzano un prodotto loro, raccontato con il loro modo di raccontare, fanno un buon lavoro. Penso alla serie “Un’amica geniale”, ambientata a Napoli, con giovani attrici napoletane senza esperienze, scelte appositamente per dare autenticità. È un piccolo capolavoro in co-produzione con l’emittente americana HBO. Se raccontiamo l’Italia, possiamo fare un buon lavoro.