C’è un conflitto sempre più evidente tra la necessità di curare l’ambiente e l’esigenza di trasformarlo, tra lo spirito di conservazione e quello dell’innovazione.
Un conflitto aspro e difficile da risolvere perché condizionato da infiniti fattori spesso in contrasto tra loro. La città e le sue estensioni sono il territorio più fragile sul piano delle modifiche della forma ma l’ambiente – naturale e coltivato – non scherza.
Alcuni gruppi d’interesse – associazioni e singoli cittadini – spingono spesso verso una forma di tutela che si limita a elencare dogmi contro ogni forma di modificazione dello status esistente. Questa cultura è stata utile e funzionale fin quando il “riconoscimento” del valore dei bene comune era ancora provvisorio e precario. Oggi c’è evidentemente una maggiore consapevolezza da parte degli enti preposti al governo dei processi trasformativi, dei cittadini e degli stessi portatori d’interesse (cioè le aziende).
La stessa formazione (scuola, università e professioni) ha curvato in questo senso (ambientalista) le azioni didattiche ed educative, offrendo un ampio spettro di soluzioni sostenibili ed ecologiche.
La storia ci insegna altro. La natura ci insegna altro.
Le città e le campagne sono il risultato di un’infinita stratificazione nel tempo. La natura si modifica da sé, lentamente. Nulla è immodificabile. Il tempo modella plasticamente ogni cosa, la consuma, la modifica fino a farla deperire. Una lenta trasformazione culturale e fisica che rende obsoleti: oggetti, manufatti, riti, idee, costumi, città e le stesse reti (di qualunque tempo e di qualunque forma) che sostanziano la forma del paesaggio.
Oggi la questione è saper governare queste trasformazioni, ricondurle a un metabolismo ecologista e circolare scegliendo con attenzione quello che conviene “conservare”: forme, tipi, visuali, risorse, liturgie, documenti, esperienze. Alcuni strumenti sono necessari, come il Pug (piano urbano generale, ex Prg per i siciliani) per una città, come anche i Piani Paesaggistici e tutti gli strumenti ad esso afferenti. Anche alcuni atteggiamenti – collettivi e personali – sono necessari; come quelli che dovrebbe sviluppare una comunità quando una porzione di territorio è oggetto di una trasformazione. Non si tratta di generare un un’azione bellica ma trovare gli strumenti per definire obiettivi condivisi. Invece spesso tutto si riduce solo a uno scontro tra parti che esercitano uno sterile braccio di ferro senza vincitori. Allora quella città degradata, abbandonata e in disuso rimane per sempre in questo stato solo per difendere una “tegola” o un “cespuglio” (ovviamente è un’allegoria).
Prima che si possa scatenare una guerra con le associazioni ambientaliste, va precisato che la difesa del patrimonio culturale e ambientale è una priorità improcrastinabile e necessaria. Sono le modalità che qualche volta sono generaliste e stereotipate e le norme non ci aiutano per niente. Non possiamo nemmeno affidarci solo al buonsenso, serve una revisione radicale del concetto di conservazione, del suo dispositivo legislativo e prima di ogni cosa di un quadro delle conoscenze più idoneo e capillare. Non conosciamo fino in fondo la terra che calpestiamo.
Si deve prendere atto che alcune cose saranno spazzate via dalla natura.
I cambiamenti climatici (uragani e desertificazioni), le catastrofi geologiche (terremoti ed eruzioni), le epidemie (covid). Ma non possiamo nemmeno sottovalutare le possibili conseguenze, che queste modificazioni, comportano nella metamorfosi sociale, culturale, economica ed etica. Per dirla in maniere più semplice, tutto si trasforma e la sfida è governare la trasformazione, curvandola secondo le ideologie condivise. Le nuove tecnologie, comprese quelle digitali, saranno protagoniste di questo cambiamento anche dello stesso concetto di “conservazione”. Ricerca, riconoscimento, documentazione, conservazione, valorizzazione e fruizione. Sono il percorso da intraprendere, in chiave multidisciplinare, per trasformare l’ambiente fisico e metafisico. Senza dimenticare l’idea di sostenibilità economica, necessaria per rendere ogni azione concreta e reale.
L’affermazione, si deve prendere atto che alcune cose saranno spazzate via dalla natura, non è catastrofista ma è l’atteggiamento scientifico che deve guidare le azioni pianificatorie. Rimane sempre attuale, e più volte sottolineato in questa sede, che il progetto (integrato, alla giusta scala) come cultura del fare, può dare risposte più credibili alle nuove esigenze: più energia, più movimento, più produzione, più commercio, più residenze, più servizi. Detto così suona male, ma diciamo che la popolazione mondiale è in continua crescita e la risposta dei governi – globalmente – non è spesso adeguata: emigrazioni, conflitti, diseguaglianze, povertà, fame, sfruttamenti, dittature, inquinamenti sono alcuni dei temi che andrebbero affrontati alla scala globale e locale.
Serve quindi ridefinire un nuovo paradigma.
Una nuova scala delle priorità. Abbattiamo le case vecchie e realizziamo grattacieli per consumare meno suolo? Oppure no? Svuotiamo le dighe piene di inerti che impediscono di ottemperare alla loro funzione? Oppure no? Realizziamo più infrastrutture della mobilità pubblica (la cura del ferro) per rendere più accessibile i territori ai cittadini? Oppure no?
Se le ideologie perdono il senso della realtà, queste sono controproducenti alla sopravvivenza del genere umano. Diventano fanatismi. La priorità è la qualità dello spazio, sotto tutti i punti di vista, a questo non dobbiamo rinunciare. Alla qualità degli spazi: culturali, economici, produttivi, artistici, etici, naturalistici, politici, sociali, amicali.
Qualità, che significa progettare tali spazi. Progettare, guardare profeticamente avanti a noi, anticipare il futuro, curvare i metabolismi della natura (con garbo). Ma serve limpidezza d’animo. Ovviamente, bisogna tenere l’occhio vivo contro i furbetti, contro gli spacciatori di surrogati di qualità. Quelli sono il pericolo reale, spesso nascosti da sigle ammalianti e rassicuranti.