di Loredana Pitino
Ci sono mondi segreti e poco conosciuti che, proprio per questo, mantengono il fascino magico del mistero che nei secoli si è fatto mito.
Ci sono momenti della storia destinati ad essere superati e dimenticati anche se fondamentali e altri che hanno, per ragioni inspiegabili e imprevedibili, ottenuto la luce dei riflettori che ne ampliano l’effettiva portata e sono diventati leggenda.
Ciò che è accaduto con la tomba del faraone Tut-Ankh-Amon è stato un evento dalla portata rivoluzionaria; si è trattato di una delle più importanti scoperte dell’archeologia mondiale perché rinvenuta con tutto il tesoro, rimasto sepolto e intatto per oltre tre mila anni. Scoperta nel 1922, questa tomba è famosa anche per la leggenda della maledizione che la rende ancora più misteriosa.
La scoperta, avvenuta il 27 novembre 1922 a opera dell’egittologo Howard Carter, grazie al suo finanziatore Lord George Herbert, conte di Carnarvon, fece subito talmente tanto scalpore in Europa e poi nel mondo da dare vita a una grande curiosità, oltre che straordinario interesse per l’Antico Egitto. In realtà si trattava di un faraone di minor importanza, morto molto giovane, appartenuto alla XVIII dinastia. Eppure l’evento è passato alla storia come il più importante ritrovamento del XX secolo. L’idea di una maledizione venne subito alimentata da racconti, romanzi d’appendice e anche le prime pellicole cinematografiche trovarono ampio repertorio a cui attingere.
Storia, archeologia e fantasia si sono mescolate, favorendosi e anche danneggiandosi a vicenda.
Con molta serietà e rigore, da quando gli europei hanno scoperto il tesoro immenso custodito in Egitto, da Napoleone che ne fece oggetto di conquista con le sue campagne perché divenisse preciso simbolo del suo trionfo, e poi sempre nel corso del XIX e XX secolo, il tempo lontanissimo delle 33 Dinastie che hanno regnato per oltre 3000 anni, è stato analizzato, ripercorso, scomposto, montato e rimontato, raccontato e messo in discussione dall’archeologia; pressoché infinita è la letteratura sull’Egittologia. Altrettanto nutrita la narrazione romanzata e la filmografia.
E per questo c’è ancora spazio di indagine e anche di creazione.
Ripercorre le tappe della scoperta e le sue conseguenze il romanzo di Annamaria Zizza, docente siciliana, studiosa di egittologia e archeologia (scrive da tempo per “Mediterraneo antico”), Lo scriba e il faraone, uscito nel mese di giugno per Algra editore.
La scrittrice, alla sua prima prova importante (ha pubblicato anche una raccolta di poesie) ha compiuto una ricerca per anni su questi momenti: gli anni Venti e il XIV sec. a.C.
Su questa doppia dimensione spazio-temporale scorrono due piani della storia: personaggi lontanissimi fra loro sono accostati e indagati con attenzione psicologica e scavo interiore che, se possono apparire naturali per uomini e donne vissuti in un’epoca distante da noi solo un secolo, per individui vissuti in un tempo e in uno spazio così lontano da sembrarci irreale, appaiono operazione di grande perizia nella difficile arte della scrittura.
Il romanzo risponde al canone del romanzo storico dove il motivo che caratterizza l’intreccio restituisce “l’interessante” (per citare il Maestro Manzoni) mezzo che intriga il lettore e lo immerge in un contesto doppio e dialogante, ma è anche un meraviglioso romanzo di formazione per più personaggi, si arricchisce di un intarsio omodiegetico, dove lo scriba del titolo racconta la sua vita facendo, così, luce su molti aspetti della vicenda, quelli relativi alla scoperta della tomba e quelli relativi al faraone. Qui l’autrice si avvale davvero dell’arte dei grandi maestri della narrazione: l’espediente letterario del ritrovamento di un manoscritto, per ovvie ragioni, misterioso, celato, indecifrabile, affascinante.
Questo lungo racconto nel racconto è davvero la parte più bella del romanzo, bella esteticamente, bella emotivamente, bella umanamente. La stessa Zizza ha dichiarato che “la storia mi è scappata dalle mani” e ciò è evidente perché lo scriba Menthuotep, che è l’unico personaggio di fantasia in un contesto di personaggi tutti storicamente concreti e dettagliatamente ritratti, è il vero protagonista, colui che apre e chiude una serie di eventi e custodisce segreti e verità culturali, religiose e politiche. Come in una costruzione visionaria di Dan Brown, anche qui c’è un segreto la cui rivelazione potrebbe cambiare il mondo, non quello dei faraoni, ma quello di Israele, del Sionismo, delle religioni monoteiste, degli equilibri internazionali nell’età fra le due guerre mondiali. Questo segreto scoprirà il grande archeologo Carter, questo segreto forse la vera maledizione della tomba di Tut-Ank-Amon.
E se un ritrovamento improvvisamente cambiasse le certezze millenarie su cui si fondano le religioni e le culture occidentali? Dobbiamo procedere fino in fondo, con calma e attenzione, anche se il libro, con le sue 271 pagine, si legge tutto d’un fiato, per capire, per scoprire questo segreto.
Nel libro troviamo una scrittura che galoppa da un’era all’altra e mette insieme le tessere di un mosaico complesso che incastrano frammenti di ricostruzione archeologica (dotta), sentimento di amore e devozione, descrizioni d’ambiente pittoresche e sensuali, scavi psicologici e quadri sociologici delle due epoche, amore per i dettagli e per la restituzione al lettore di ciò che la fantasia produce, colorando il tutto di poesia e pathos (deliziosa la descrizione dei cieli della Mesopotamia che apre il racconto di Menthuotep).
Su tutto un omaggio all’amicizia, quella eterna. L’amicizia che lega lo scriba al faraone, ma non solo.
Lo scriba e il faraone è un libro sorprendente, come una matrioska contiene storie dentro le storie, e siccome è un libro molto colto (ci sono voluti anni di gestazione e ricerca), è un libro scritto con molta umiltà, senza saccenteria ma con il gusto sapido di chi sa regalare una narrazione documentatissima rendendola leggera e attraversando con sapienza il tempo e lo spazio.