Il boss Giovanni Brusca, soprannominato lo “scannacristiani” per i crimini atroci di cui si è macchiato in passato tra cui la strage di Capaci e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, ha finito di scontare la sua pena.
La liberazione del pentito ha infiammato il dibattito pubblico sollevando molti dubbi sulla normativa sui collaboratori di giustizia attualmente in vigore.
Sull’argomento, il Corriere Etneo ha intervistato l’avvocato Stefano Giordano, legale di Bruno Contrada e docente alla Scuola di specializzazione di Diritto Penale dell’Università di Palermo.
Avvocato, perché Brusca è uscito dal carcere? Gran parte dell’opinione pubblica crede che 25 anni per uno come lui siano pochi.
Anch’io penso che per quello che ha fatto 25 anni probabilmente siano pochi. La verità però è che bisogna contestualizzare ciò che è successo a Brusca. Il suo è un nome che fa clamore in quanto è notorio che sia stato un criminale efferato, ma anche altri criminali meno noti che hanno collaborato con la giustizia in passato, al netto dell’impatto mediatico hanno ricevuto il medesimo trattamento dalla giustizia.
La collaborazione non si valuta sul piano spirituale del detenuto, ma è l’effetto di un percorso di collaborazione con lo Stato. Per cui possiamo avere: una collaborazione associata alla redenzione; soggetti che invece non sono per niente redenti di ciò che hanno fatto e nonostante ciò usufruiscono delle attenuanti riservate ai pentiti; ma anche soggetti che seppur redenti non collaborano con la giustizia per varie ragioni come ad esempio il pericolo di ritorsioni nei confronti dei familiari.
La legge voluta da Falcone era finalizzata, così come avveniva nel modello americano, ad incentivare le collaborazioni perché queste rappresentavano allora così come oggi, nonostante le intercettazioni e gli altri strumenti di nuova generazione che all’epoca gli investigatori non avevano, uno strumento insostituibile per la ricerca della verità. A tal fine è fondamentale che chi sia chiamato a valutare la prova lo faccia con attenzione, rispettando i canoni ermeneutici solcati dall’esperienza di Falcone e Borsellino e del Maxiprocesso. I collaboratori di giustizia devono essere creduti dal giudice dopo che questi abbia verificato la credibilità oggettiva e soggettiva del dichiarante, ma anche i riscontri esterni senza i quali non si può pronunciare un giudizio di colpevolezza.
Quindi nel caso di Brusca possiamo dire che la legge sia stata applicata, ma bisogna chiedersi se effettivamente il cumulo giuridico, cioè la serie di condanne che ha avuto Brusca, poteva effettivamente rientrare nei 25 anni oppure se avrebbe meritato una pena superiore, anche l’ergastolo, tenendo conto che però l’ergastolo secondo i principi convenzionali deve essere calcolato tenendo conto di una possibilità di revisione o essere tramutato in un regime più umano ai sensi dell’articolo 27 della Costituzione.
E’ importante, quindi, scindere il pentimento personale dell’uomo Brusca da quello che è avvenuto sul piano giudiziario?
Questo vale per tutti collaboratori di giustizia. Se pensiamo a Buscetta possiamo dire che non sia mai pentito di essere stato mafioso, anzi, lo diceva lui stesso dipingendo la mafia dell’epoca come un’organizzazione che aveva perso i valori della mafia altri tempi che era, a detta sua, composta da uomini d’onore. Quindi sia Buscetta che Contorno non hanno mai detto di essere dei “pentiti”, hanno sempre detto che loro collaboravano con la giustizia. Bisogna sempre vedere quali siano state le motivazioni intrinseche che hanno spinto quei pentiti a collaborare, potrebbero esserci anche delle motivazioni di rivalsa come nel caso di Buscetta. Però bisogna effettivamente verificare che non sia l’unico motivo, che ce ne siano degli altri, e che il collaboratore dica la verità. Ma questo è un compito che spetta al giudice.
È vero che la legge sui collaboratori di giustizia fu voluta da Falcone?
La legge fu voluta da lui però poi le modalità esecutive e anche il modo in cui è stata applicata successivamente non devono essergli attribuiti, perché ci sono stati degli errori nell’applicazione a cui sicuramente non possiamo apporre la firma di Giovanni Falcone.
Nei processi di mafia degli ultimi decenni quanto ha influito questa legge? C’è una differenza tra il Maxiprocesso e ciò che è venuto dopo?
La differenza c’è. Perché nel Maxiprocesso i cosiddetti pentiti non si giovarono della premialità, nel senso che non c’era la legge che premiava la collaborazione, poi magari si aveva un’attenzione maggiore attraverso le attenuanti generiche o altri criteri di valutazione per determinare la pena ma non c’era la legge sui collaboranti. Questo è un dato fondamentale perché ai tempi si valutava sempre l’attendibilità del collaboratore, ma era importante che la motivazione sull’attendibilità del dichiarante fosse una motivazione rafforzata dopo l’attenuante. Chiaramente hanno tutti interesse ad essere scarcerati, quindi bisogna vedere se la collaborazione spinga effettivamente il collaborante a dire la verità o se il collaborante non inventi qualcosa al sol fine di godere di un beneficio premiale.
Alcune dichiarazioni dei pentiti si sono rivelate col tempo inattendibili. Quanto conta la capacità investigativa del pubblico ministero in un processo di collaborazione con la giustizia?
La capacità di screening della prova è un aspetto fondamentale che deve essere affrontato fin dall’inizio. La vicenda di Scarantino ci dovrebbe portare a rivedere il modo in cui gli uomini hanno gestito il fenomeno del pentitismo. Questo è l’aspetto più grave della vicenda.
Spesso si parla di rivedere la legge sui collaboratori di giustizia, una legge a mio avviso sacrosanta perché noi ne abbiamo purtroppo bisogno. La legge in questione rappresenta la vera “trattativa” dello Stato, non quella dipinta da altri, perché è una trattativa legale che viene introdotta con legge. Lo Stato tratta col pentito nella misura in cui dice al pentito: se collabori con me e dici cose vere io ti do uno sconto di pena.
La notizia della scarcerazione di Brusca ha acceso un dibattito forte tra le forze politiche. Da una parte partiti come la Lega e Forza Italia chiedono una riforma della legge per concedere minori benefici ai collaboratori di giustizia, dall’altra esponenti politici come Pietro Grasso vorrebbero conservare la legge così com’è. Cosa ne pensa?
La legge così com’è fatta attualmente è sempre emendabile, ma eviterei un ritocco legislativo sulla base emozionale della scarcerazione di Brusca. Dovrebbe esserci, però, contrariamente a quanto avvenuto in passato, un maggior rigore nella valutazione del pentito. Un approccio coerente ai principi stabiliti dalla Corte di Cassazione che i giudici di merito non sempre hanno eseguito in concreto.
Bisognerebbe anche rivedere il meccanismo di valutazione dell’attendibilità del pentito. A mio avviso non dovrebbe essere il pubblico ministero che procede a valutare l’attendibilità del collaboratore, ma un giudice terzo.
Crede che la normativa dell’ergastolo ostativo, alla luce delle pronunce della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti Umani, sarà riformata? È arrivato il momento di mettere fine a doppio binario?
È arrivato il momento di mettere fine al doppio binario nel senso che dobbiamo dire che la pena dell’ergastolo, anche se sia stata inflitta per motivi di terrorismo o di mafia, dovrà essere sempre rivedibile. Ciò non significa che l’ergastolo in quanto tale sia costituzionalmente o convenzionalmente illegittimo, ma se non dà la possibilità di rivedere con maggiore frequenza il cammino del detenuto rappresenta una pena senza senso che contrasta con la finalità rieducativa che dovrebbe essere inclusa in ogni esecuzione penale.