Non conviene partire da molto lontano, magari attingendo a quella straordinaria letteratura sul rapporto tra Dio e la musica.
Un rapporto antico, profondo e mistico. Un’alchimia di suoni che diventano emozioni. Un racconto di note, di pause e di tempi. Parole, preghiere, poesie. Una melodia che modella lo spazio, lo invade diventando forma.
Dentro una cattedrale, tra le sue colonne altissime, come un bosco di pietra coperto da vele ricamate di pizzo. La musica diventa la parola di Dio, il suo linguaggio più vero, autentico, diretto. Oltre le liturgie della forma, oltre le processioni, dentro l’essenza del divino.
La musica è forse l’espressione dell’uomo che più si avvicina alla natura celeste.
Il canto, gli strumenti che rimbalzano le note. Viole, violini, percussioni, tastiere e fiati; un’armonia perfetta che si espande fino a saturare il tempio.
Una magia, un mistero matematico e fisico di vibrazioni e frequenze. Le mani, le labbra, lo sguardo di un coro e di un’orchestra che non appartiene al teatro, al melodramma, alla lirica allo spettacolo ma è una preghiera collettiva, una litania sacra, una ritualità intima. Canti, danza, festa, solennità, celebrazione, per la vita e per la morte.
Dentro quello spazio sacro, dove l’odore dell’incenso è penetrante fin dentro l’anima, dove le vesti, le stoffe, le luci, le mille figure ruotano vertiginosamente verso l’alto, in quello spazio domina una voce. L’esperienza dei fedeli è costante, quasi abitudinaria ma entrare dentro quella chiesa, come se fosse sempre la prima volta, è sublime. Una voce che ti scava l’anima, ti racconta le sacre scritture, ti accompagna verso l’infinito. Non serve sapere le parole dette, non serve guardare, non importa da dove viene, quello che conta è l’immersione totale nella sacralità della melodia.
Recentemente sono tornato dentro quel tempio ottagonale, per salutare – per l’ultima volta – uomini rubati dalla morte. Lo strazio della separazione, quella cassa di legno lucido al centro della navata, le stoffe nere, gli occhi colmi di lacrime e una litania di racconti. La liturgia dell’ultimo saluto, l’acqua e l’incenso, le sacre scritture e la speranza dell’infinito oltre la vita. In questo luogo si rischia di rimanere assenti, ieraticamente distaccati, come spettatori di una tragedia non nostra. Ma da lassù, dalla cantoria, le mani di una donna sfiorano i tasti di una macchina infernale, addomesticandola a sé; l’organo dalle mille canne si piega al volere delle mani. Suoni solenni e vibranti che riverberano dentro ogni piega di quella chiesa. La musica di Dio entra nella pelle ed esplode all’improvviso. Poi, piano piano, la voce dell’uomo si trasforma in canto, dolcissimo e penetrante. Una tempesta di dolcezza e maestria.
Allora tutto diventa unità, contemporaneità, presenza ed essenza. La voce, giovane come una ginestra cresciuta nella lava nera, vibra intensamente, fluttua tra le modanature barocche, sgorga dalle labbra di tutti e diventa la voce del celebrante, dell’assemblea, delle stoffe nere e sbiadite, del legno di cipresso di cui è fatta la bara e le pietre che coprono la terra diventano altare.
La voce dell’uomo e le mani di lei, sono al servizio del popolo di Dio, ne sono la voce, ne sono la cassa di risonanza ma nello stesso tempo, sono essi stessi la preghiera che si rivolge all’altissimo, qualunque sia la sua forma. Questa voce e queste mani sono tante voci e tante mani, unite da una consapevolezza collettiva che la musica è preghiera. Non solo morte, non solo disperazione ma vita e speranza. Gioia e ringraziamento. Un coro di voci e di piccoli strumenti che accarezzano le liturgie, che animano le celebrazioni e danno voce a tutto il popolo di Dio. Una melodia sublime che rimbalza di casa in casa, di piazza in piazza, di quartiere in quartiere.
Come Virgilio per Dante, questa musica fatta da uomini e donne semplici, accompagna anche il più ostinato degli atei verso Dio.
Penetra nella sua carne, dentro le sue viscere, scorre nel suo sangue e a poco serve fare resistenza, la melodia è essa stessa espressione del divino. Incomprensibile, invisibile, indefinibile ma portatrice di bellezza e di poesia.
«L’artista, l’interprete e – nel caso della musica – l’ascoltatore nutrono un medesimo desiderio: quello di capire ciò che la bellezza, la musica, l’arte ci permette di conoscere della realtà di Dio. E forse mai come nel nostro tempo gli uomini e donne ne hanno tanta necessità. Interpretare questa realtà è essenziale per il mondo di oggi.» Papa Francesco.
La musica è suono, è silenzio, è la necessità di trascendente che l’uomo ricerca sin dall’antichità. Apollo, dio della musica, della luce e delle profezie. Rappresentazione del sole e della vita. Apollo, custode di antichi segreti, figlio di Zeus, tanto caro all’iconografia cristiana. Ma dentro quel tempio ottagonale che guarda verso occidente, sulla cantoria barocca, si erge una voce divina, una vibrazione misteriosa che scuote l’anima e fa sgorgare lacrime senza fine o gioia semplice e sincera. Senza quella musica, senza quel coro, le pietre sarebbero mute, le panche vuote e il sacerdote solo con se stesso. Dentro quella chiesa templare c’è la luce e il suono di Dio. C’è una la comunità in cammino verso un orizzonte fragile, verso una speranza. Un coro fatto di semplicità e complessità.
Uscire da quella chiesa è più complicato che entrarci, verrebbe voglia di restarci per sempre, solo per sentire Dio, attraverso quelle voci semplici. Seduti in una panca, soli, a pensare con la luce che trapassa l’aria e scivola tra i ricami di pietra dorata. E mi ritorna in mente «l’ombra della luce» e quelle poesie musicate di Franco Battiato, come fossero preghiere.