Rosario Livatino, il giudice beato.
La Messa, con il rito di beatificazione, si svolge oggi alle 10, nella cattedrale di Agrigento, nel giorno dell’anniversario della visita di Giovanni Paolo II e del suo anatema contro la mafia. La celebrazione è presieduta dal cardinale Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, alla presenza di vescovi e familiari. Il giudice fu ucciso il 21 settembre 1990. Il 3 ottobre avrebbe compiuto 38 anni, A bordo della sua Ford Fiesta da Canicattì, dove abitava, si stava recando al tribunale di Agrigento, quando fu avvicinato, braccato e ucciso da un commando mafioso. In base alla sentenza che ha condannato al carcere a vita sicari e mandanti, Livatino è stato ammazzato perché “perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia”.
Giovanni Paolo II, pensava anche al magistrato, che definì “martire della giustizia e indirettamente della fede”, quando da Agrigento il 9 maggio del 1993, aggrappato al Crocifisso, lanciò il suo grido di pastore e profeta, in un contesto dilaniato dalle stragi e dalle faide di mafia e caratterizzato da posizioni ancora troppo timide da parte delle istituzioni, Chiesa compresa. Poco prima Wojtyla, il Papa Santo, aveva incontrato i familiari del giudice Antonino Saetta, ucciso con il figlio Stefano nel 1988, e il papà e la mamma di Livatino.
Queste le parole del pontefice polacco che invasero e travalicarono la Valle dei Templi:
“Che sia concordia! Dio ha detto una volta: non uccidere! Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione… mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio!
Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte!. Nel nome di questo Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via, verità e vita. Lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio!”.
Per don Giuseppe Livatino, primo postulatore del processo di beatificazione nella Diocesi di Agrigento, apparve “subito chiaro che la storia e il miracolo di Rosario Livatino non rispondevano al cliché del ‘giudice ragazzino’ che va incontro alla morte senza sapere e capire”. Livatino affronta “il sacrificio supremo nella piena consapevolezza perché erano già chiare le indiscrezioni che circolavano nell’estate del 1990”.
Il sacerdote richiama soprattutto due episodi: “L’ultima frase, prima del colpo di grazia, guardando in faccia gli assassini che lo avevano inseguito: ‘Picciò, che cosa vi ho fatto?’. Li richiama. Aziona l’arma del dialogo. Lascia un quesito che germoglia e lentamente porterà chi spara a pentirsi”.
E ancora:
“Nel corso di un regolamento di conti, un boss mafioso viene colpito a morte. A un ufficiale dei carabinieri tutto soddisfatto e gongolante accanto a quel corpo senza vita, Livatino dice: ‘Di fronte alla morte chi ha fede, prega; chi non ce l’ha, tace!'”.
Per il religioso, Livatino è stato un giudice “giusto” in quanto “alla legge bisogna dare necessariamente un’anima, sosteneva. Spiegando che l’obiettivo della giustizia è redimere chi sbaglia e reinserirlo nella società civile”.
Il mattino in cui lo uccisero, il giudice stava percorrendo i duecento metri del viadotto San Benedetto, a tre chilometri dalla città dei templi, quando una Fiat Uno e una motocicletta di grossa cilindrata lo hanno affiancato costringendolo a fermarsi sulla barriera di protezione della strada statale. I sicari hanno sparato numerosi colpi di pistola. Rosario Livatino ha tentato una disperata fuga, ma è stato bloccato. Sceso dal mezzo, ha cercato scampo nella scarpata sottostante, ma è stato ammazzato con una scarica di colpi. Sul posto i colleghi del giudice assassinato; da Palermo l’allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone, e da Marsala Paolo Borsellino. Rimane ancora oscuro il vero contesto in cui è maturata la decisione di eliminare un giudice non influenzabile.
Prima di lui, il 25 settembre 1988, furono uccisi il presidente della Prima Sezione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo Antonino Saetta e il figlio Stefano trucidati in un agguato mafioso sempre sulla statale Agrigento-Caltanissetta, sul viadotto Giulfo, mentre, senza scorta e con la loro auto, facevano rientro a Palermo.
Nella sua attività Livatino si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la ‘Tangentopoli siciliana’ e aveva colpito duramente la mafia di Porto Empedocle e di Palma di Montechiaro, anche attraverso la confisca dei beni.
La storia di Livatino è stata raccontata da Nando dalla Chiesa nel libro “Il giudice ragazzino”, titolo che riprende la definizione di Francesco Cossiga. “Livatino e la sua storia – scriveva Dalla Chiesa – sono uno specchio pubblico per un’intera società e la sua morte, più che essere un documento d’accusa contro la mafia, finisce per essere un silenzioso, terribile documento d’accusa contro il complessivo regime della corruzione”.