La città coltivata e costruita ha perso la memoria di sé. La sua forma e le sue pulsazioni sono il prodotto di scelte umane e di traumi naturali. L’uomo ha tentato di addomesticare il suolo, di dominare lo spazio e di emulare il cosmo ma oggi annaspa disperatamente, indeciso tra il dover porre rimedio ai suoi errori planetari più recenti e il continuo narcisismo che lo caratterizza. Una continua tensione tra riparare e comunicare.
Dentro questo pendolarismo – spesso ideologizzato – si colloca il malore delle città che perde la memoria della sua metamorfosi, le ragioni della sua forma, il significato dei suoi luoghi. Allora si assiste alle spinte centrifughe verso qualcosa: la campagna, il centro storico, la natura, la periferia, l’isola, la costa, un’idea. Una corsa forsennata verso l’ultima “riserva” di moda. La città è malata ma anche gli uomini che la abitano, ormai privi di coscienza culturale, di pratica della trasformazione, di visione del futuro prossimo. Il passato ha collezionato ecologie plurime.
L’organismo urbano ha bisogno di una cura, di attenzioni, di approfondimenti, di scavi profondi nei ricordi più intimi. La sua rinascita o la sua guarigione sarà il risultato di un processo di evocazione, quasi una terapia psicoanalitica, per rimuovere le questioni irrisolte che si sono stratificate nel tempo recente. Rimuovere i cortocircuiti culturali, strutturali e tecnologici. Forse proprio una certa tecnologia o se vogliamo la velocità eccessiva con cui la tecnologia ha cambiato le città può essere una concausa rilevante. Ma solo ripartendo dallo studio della storia dei paesaggi si potranno individuare le terapie utili per la rigenerazione. Storia del paesaggio, archeologia del paesaggio, una specie di scavo archeologico applicato alla forma della città in tutte le sue possibili declinazioni culturali, sociali, economiche, teologiche e naturalistiche. Allora non rimane che indagare in tre ambiti attraverso la pratica del progetto: negli interstizi, tra le cose; dentro le costellazioni, lungo i flussi; esplorando i metabolismi, morfologici e metafisici.
Gli interstizi.
Le città contengono infiniti interstizi, porzioni di territorio che separano qualità diverse dell’ambiente. Limiti irrisolti. Tra la città storica e la periferia, tra queste e la campagna, tra un pieno e un vuoto, tra natura e artificio. Lungo i confini, attraverso i corridoi, negli slarghi occasionali senza forma. Dentro questo spazio si può concentrare il progetto di ridisegno, per riconfigurare, rimodellare, riconnettere. Il confine tra le cose come occasione per ripensare la città, come una rete di policentrismi reticolari, un’occasione per immaginare nuove forme dell’abitare. Scavando, sollevando, piegando, sostenendo, coprendo. Luoghi dello sport, della cultura, della formazione, del commercio, del tempo libero. Iconici, flessibili, sociali. Oasi, sentieri, mura porose. Attraversamenti, soste, punti di osservazione. Scuole, mercati, parchi, biblioteche, laboratori, piste, campi per lo sport. Polarità reticolari per costruire una forma nella forma. Recuperare i relitti, gli scarti, i ruderi. Progetto puntuale.
Le costellazioni.
Il recinto, come la riserva, sono organismi anaerobici. Privi di ossigeno e quindi destinati all’asfissia. Il territorio è strutturato come una costellazione di luoghi, di relazioni, di connessioni. Fisiche quelle che si sono storicizzate, ed oggi anche digitali. Layer sovrapposti che dialogano, si condizionano e determinano nuove gerarchie. La capacità di individuare le costellazioni, di creare layer e di espanderle oltre i limiti, rappresenta un’opportunità per le collettività: nuovi mercati, nuove socialità, nuove liturgie. Una connessione veloce che determina soste e contemplazione. Una dimensione lenta e accelerata. Un atlante di occasioni, di soluzioni, di incontri. Dense e rarefatte, porose e compatte. Stelle che disegnano figure cosmologiche, politiche e teologiche. Il paesaggio rappresentato dalle costellazioni che sono un altro luogo del progetto. Disegnarle è il progetto. Rappresentarle dentro e fuori la città anche oltre fino ai confini dell’universo. Una metodologia che destruttura e ricompone la città: metro, pista, sentiero, strada, segnaletica, illuminazione, filare, arrivo e ripartenza. Progetto di rete.
I metabolismi.
L’umanità occupa lo spazio e lo abita. Attraverso alcune molecole sociali. Gruppi divisi per età, sesso, obiettivi, funzioni, tensioni, interessi. Associazioni, organizzazioni, enti, comunità.
Insieme rappresentano il fluido vitale dello spazio fisico. Guardare, toccare, ascoltare, gustare, annusare. La città ha la necessità di riconfigurare le regole aggregative, i luoghi per esercitare la cittadinanza, le modalità per incidere sulla collettività. Nuove forme di democrazia, nuove forme decisionali, organismi di controllo e di azione, di validazione e di indirizzo. Decidere, scegliere, selezionare. La sfida è risolvere i conflitti d’interesse e i requisiti per rappresentare gli scopi collettivi. La politica deve tornare nelle piazze, non sotto le piazze. La città come organismo metabolico, come organismo; avendo cura di non isolare il cuore, lo stomaco, i polmoni e il fegato; le parti fondanti della comunità: religiose, politiche, culturali, economiche, sindacali, sanitarie, ecc. organismi mutevoli e pulsanti che necessitano di un palinsesto condiviso e coerente. Ridisegnare il concetto di partecipazione, più coerente e meno strumentale. Progetto umano.
L’unità di progetto è il paesaggio, o meglio i paesaggi. La visione che predilige il soggetto e lo sfondo. Un programma di trasformazione mite, utile, sistemico. Il paesaggio come metodo di rappresentazione, di analisi e di sintesi. L’archeologia del paesaggio intesa come capacità di cogliere le ragioni del cambiamento per determinare nuovi cambiamenti. Una strada, un luogo, l’uomo. Dentro gli interstizi, si collocano le costellazioni che riattivano i metabolismi. Come uno spartito dentro il quale ci sono note, pause e tempi che determinano l’armonia musicale. Servono più seminatori e meno raccoglitori. Serve seminare, curare, aspettare e dopo raccogliere. Una comunità di soli raccoglitori, dopo aver preso il frutto senza una nuova semina, tende a morire, prima o poi.