“Siamo in guerra contro un nemico terribile, non possiamo ragionare come se vivessimo nella normalità”.
In un’intervista al ‘Corriere della Sera’ il virologo Giorgio Palù, presidente dell’Agenzia del farmaco Aifa, difende le scelte dell’Italia sulla possibilità da un lato, per chi ha ricevuto la prima dose del vaccino anti-Covid di AstraZeneca, di fare il richiamo con lo stesso siero, e dall’altro, in caso di vaccinazioni con prodotti a mRna (Pfizer/BioNTech o Moderna), di allungare fino a un massimo di 42 giorni l’intervallo tra le due dosi.
“I francesi e i tedeschi”, ricorda l’esperto, “hanno suggerito” il richiamo con Pfizer o Moderna dopo la prima dose di vaccino AstraZeneca in caso di “persone con meno di 55 anni e 60 anni, rispettivamente”.
Una decisione animata da “estrema cautela. I circa 200 casi di trombosi, molto infrequenti, segnalati dopo la prima somministrazione di AstraZeneca in soggetti giovani hanno spinto ad alzare la guardia. L’incidenza di tali effetti avversi è comunque estremamente rara, un caso su oltre 100mila vaccinati, tanto che né l’agenzia Ema né l’Oms hanno posto restrizioni”, sottolinea Palù. Ma se si tratta di reazioni osservate solo dopo la prima dose, perché cambiare vaccino per il richiamo? “Il timore è che un individuo dopo la prima dose possa aver ricevuto uno stimolo, che però non ha avuto conseguenze, e che la seconda iniezione possa riattivare quel meccanismo con esiti drammatici.
Siamo sul campo delle ipotesi”, precisa il presidente Aifa, spiegando perché l’Italia non ha seguito Francia e Germania su questa strada:
“Non c’è alcuna evidenza di eventi avversi scatenati dal richiamo”, assicura. Quanto alla seconda dose dei vaccini di Pfizer e Moderna, che da scheda tecnica andrebbe somministrata rispettivamente dopo 3 o 4 settimane dalla prima, “è possibile” ritardarla fino al 42esimo giorno: “Lo dimostrano studi recenti – conferma Palù – Però non bisogna andare oltre questo periodo per non rischiare di vanificare l’efficacia complessiva del vaccino”.
Inizialmente questa strategia, attuata dagli inglesi e molto criticata, era stata ritenuta insicura.
Però, “quando un vaccino passa dalla sperimentazione su poche decine di migliaia di persone all’applicazione sul campo con decine di milioni – osserva il virologo – le evidenze possono consolidarsi e i piani subire modifiche. Non ci basiamo su opinioni, ma su dati pubblicati. Nuove ricerche indicano che la seconda dose può essere ritardata. Così è accaduto per il vaccino AstraZeneca: la seconda dose viene praticata nel corso della dodicesima settimana. Bisogna riconoscere agli inglesi il merito di aver avuto un approccio pragmatico, sulle prime non condiviso. I risultati ottenuti dal governo Johnson sono premianti e contiamo lo siano anche per noi”.
Ora tocca all’Italia considerare soluzioni non ortodosse?
“In linea teorica sarebbe meglio rispettare l’intervallo di tempo tra le due dosi, ma dobbiamo correre ai ripari – risponde Palù – C’è carenza di vaccini e bisogna proteggere il più alto numero di cittadini: anche poche settimane guadagnate ritardando la seconda dose sono utili”. Non sarebbe più ragionevole mettere al sicuro i fragili rispettando i tempi? “In un mondo ideale sarebbe così – replica il presidente dell’Agenzia italiana del farmaco – ma è proprio per queste persone che dobbiamo correre, vaccinandone il più alto numero possibile”. E nei sani? Potrebbe bastare una sola dose di AstraZeneca che dopo 3 mesi garantisce l’80% di efficacia? “No – è netto l’esperto – Il richiamo è fondamentale per attivare la memoria immunitaria e una risposta efficace e duratura”.