Noi siamo qui, a raccontare i fatti, quelli che la storia ci offre ogni giorno.
Come l’ennesima denuncia per l’abbandono del vecchio convento della Madonna delle Grazie, sull’acropoli di Paternò, adiacente il cimitero. Non è la prima volta, è solo l’ultima di una lunga serie di appelli mai veramente presi sul serio, da nessuno. Nel senso che le istituzioni sono colpevolmente assenti a tutti i livelli. Tutti a guardare altro, a far finta di nulla, per poi stupirsi davanti ad una macchina fotografica, già pronti per una dichiarazione surrealista.
La recente cronaca si è soffermata sui resti di una bara al centro del chiostro, circondata dai resti melmosi di una salma riesumata da poco, conservati dentro un sacco di plastica. Era lì, collocata provvisoriamente da qualche giorno, pronta per lo smaltimento chissà quando e chissà dove, ma era lì, al centro del chiostro del convento. Poi il video, la denuncia, lo scandalo, lo stupore e la solita foto con tanto di dichiarazione senza senso: «è solo materiale ligneo».
Perché il problema – per qualcuno – era il materiale della bara; la preoccupazione era l’eventualità che oltre al “materiale ligneo” ci fosse del materiale biologico – che poi nel sacco c’era proprio questo.
Cioè, nel caos più totale, circondati da un degrado senza fine, dentro un monumento usato come deposito, discarica, magazzino, officina, e tanto altro, il tema del sopralluogo era il riconoscimento del materiale della bara: legno. Come per dire: di cosa vi preoccupate, era solo una bara di legno. Siamo di fronte a un caso di osservazione selettiva, si guarda solo ciò che si vuole vedere.
Meno male che a farci sorridere c’è quel gruppo di artisti straordinari di Etnaflix.
Ironici, satirici, irriverenti e sinceri. Abbiamo riso in tanti sui social, incuriositi del mistero della bara con il nostro Indiana Jones di Paternò, e il suo affettuoso padre, il professor Henry Walton Jones nell’ennesima avventura contro la Mummia cattiva. Abbiamo riso, ma a mente fredda, credo che ci sia poco da ridere. Il convento è ancora lì invaso dalla natura, dai detriti, abbandonato a se stesso, una vergogna per tutti.
Ma come siamo arrivati a questo punto?
Era il 1943, dopo i bombardamenti degli alleati che causarono molte vittime – molte seppellite in fosse comuni fuori dalla città – l’amministrazione del tempo pensò di risolvere “provvisoriamente” la necessità di reperire loculi per le salme, destinando parte del convento per le sepolture in attesa di trovare una soluzione più congrua e dignitosa. Dopo 78 anni ancora nessuno ha trovato il tempo, la voglia e le risorse per risolvere la questione. Non solo, nel frattempo abbiamo circondato il convento di ogni tipo di sepoltura – oggi diruta – avvolgendo il monumento con ogni possibile metastasi edilizia come l’obitorio e gli uffici comunali.
Il giornalista Luca Rubbis, che recentemente ha visitato l’acropoli, pubblicando le foto del degrado sulla scalinata ci ha confidato che non ha messo sui social le foto del convento con le sue aderenze per pudore, per vergogna, manifestando comunque il suo sbigottimento per la drammaticità di quanto visto.
Qualche anno fa, un commissario dell’Unesco, visitando l’acropoli, per valutare la possibilità di un possibile inserimento nell’elenco dei siti di valore per l’umanità è scappato disgustato alla vista del convento, quasi terrorizzato, dopo aver apprezzato tutto il paesaggio della collina storica, un’occasione persa.
Ma basta piangersi addosso.
Abbiamo un nuovo assessore ai servizi cimiteriali, abbiamo fondi per la messa in sicurezza del cimitero, ora dobbiamo solo capire cosa fare e soprattutto trovare il coraggio di fare la cosa giusta, evitando di allungare l’agonia di questo manufatto straordinario che potrebbe riservare delle sorprese sul piano archeologico, storico e architettonico.
Allora il tema da affrontare è quello della liberazione da tutte le superfetazioni – architettoniche e cimiteriali. La vera sfida è questa e il nuovo assessore si dovrà misurare con un’emergenza imbarazzante e complessa. L’urgenza è eliminare tutti i loculi che asfissiano il perimetro esterno e l’interno del complesso monumentale, trovando per le salme – riesumate nel frattempo – la giusta collocazione altrove in sinergia con le famiglie, concordando un percorso compatibile.
Chiudere per sempre questa ferita che aspetta da anni la soluzione.
Predisporre nuovi locali per gli uffici e l’obitorio – con le celle frigorifere – estirpando quelle aderenze che hanno privato la collettività di cogliere il vero orientamento della chiesa che – come santa Maria dell’Alto – era orientata con l’ingresso verso ovest (attualmente occupato da cisterne e obitorio).
Ma la sfida è anche quella di predisporre, per il cimitero monumentale, un vero e proprio piano di rigenerazione, che non può prescindere da una mappatura di dettaglio, dal riconoscimento delle emergenze artistiche e archeologiche.
Non dimentichiamo la relazione dell’ingegnere capo del comune di Paternò del 1885 che metteva in guardia l’amministrazione del tempo dal realizzare un cimitero sull’acropoli, capendo l’importanza dell’area. Bisogna tenere conto anche di questo.
Qualche anno fa, l’arch. Giuseppe Mirenda, ha elaborato un piano di riconfigurazione del cimitero e dell’acropoli.
Nel 2000 ci fu un concorso d’idee – dimenticato – che sviluppò altre ipotesi interessanti. L’assessore ai servizi cimiteriali dovrebbe ripartire da queste esperienze e implementarle con la consapevolezza che la necessità è ripulire, diradare per restituire alla collettività l’antico splendore del convento. Senza di questo la sua azione sarebbe monca e inutile. Usiamo le risorse disponibili per averne altre, usiamo le modalità del progetto per capire cosa fare. Usiamo le energie private con delle convenzioni o con il project financing, per evitare di essere anche noi, fatti esclusivamente di legno, come Pinocchio. Anche lui in fin dei conti era “solo di materiale ligneo”.