Catania, demolizione ‘Santa Marta’. Finocchiaro: “Per la trasformazione urbana si prenda ad esempio la ‘Caixa Forum’ di Madrid”

Il Corriere Etneo ospita anche oggi il parere di un tecnico sulla vicenda dell’ospedale Santa Marta a Catania.

Proseguiamo con l’architetto Francesco Finocchiaro, Docente di Storia dell’arte, progettista e responsabile nazionale del dipartimento Architettura e Paesaggi dell’Archeoclub d’Italia e collaboratore del nostro giornale.

Architetto, si è fatto una idea sulla vicenda che sta coinvolgendo l’area dell’Ex Ospedale Santa Marta? È d’accordo sulla ipotesi di demolire i volumi dell’ex nosocomio e creare una piazza?

Riflettere su questi temi è sempre complicato e dopo gli approfondimenti – spesso – molte cose trovano la giusta collocazione. Seguo con attenzione la vicenda e già qualche mese fa avevo espresso una prima riflessione dalle pagine del Corriere Etneo (https://www.corrieretneo.it/2020/09/13/loccasione-inventare-un-nuovo-spazio-urbano-dopo-la-demolizione-del-santa-marta-a-catania/).

Oggi emergono alcune criticità complessive che si potevano evitare, come per esempio gestire meglio la comunicazione del progetto. Certamente il frastuono che in questi giorni sta polarizzando le attenzioni della collettività fa emergere alcuni interrogativi che necessitano risposte: la definizione del tema progettuale; il significato della forma della città storica e le ricadute sul progetto; la centralità del disegno urbano e architettonico, sia come strumento di analisi che di sintesi; l’opportunità di usare una grammatica e una sintassi, che possa narrare meglio la metamorfosi dello spazio urbano; il rapporto tra committenza e progettista e da questo il rapporto tra la comunità e il processo progettuale che ne deriva, da molti chiamato “partecipazione dal basso”. Molte di queste cose sembrano non risolte, almeno cosi appare. La stessa scelta di demolire – o non demolire – poteva e doveva essere il risultato di un confronto tra le parti: ma queste parti sono prima di tutto il progetto urbano complessivo e la politica. Il dispositivo di partecipazione che va usato è lo strumento di programmazione comunale, l’ex Prg o se volete il Pug con tutte le sue applicazioni alle diverse scale.

La domanda adesso non è se demolire o non demolire ma come trasformare quello spazio per rispondere a esigenze funzionali complessive e rappresentative. L’esempio della Caixa Forum – centro culturale situato nel Paseo del Prado di Madrid, progettato dagli architetti Herzog & de Meuron – è l’esempio che meglio rappresenta la mia idea di trasformazione urbana; la mia è una risposta che propone una terza via.

 

Ci sono altri punti della città dove ritiene sia importante creare dei vuoti urbani? Non ritiene necessario aumentare lo spazio pubblico urbano della città attraverso la creazione di vuoti?

 Per me non ci sono posizioni predefinite del tipo vuoto sì o vuoto no, perché rischiamo di ridurre tutto a una specie di quiz in cui chiunque può esprimere un’idea priva di senso. Alcune categorie potrebbero richiedere vuoto comunque e altre nel senso opposto. La città storica ha una sua forma e una sua ragione di esistere. Il rapporto tra vuoti e pieni si è stratificato nel tempo, generando piazze, visuali, contrazioni, espansioni, forme, qualche volta pubbliche e qualche volta private. Pensiamo a quello che l’ospedale nascondeva alle sue spalle: un giardino che era esso stesso il retro di un’architettura storica. Ma non basta, questo luogo è prima di tutto un giacimento archeologico potenziale che impone una riflessione diversa della dicotomia demolire o mantenere lo status attuale. La sezione che raccorda il piano sotto la strada (quello archeologico), il piano pedonale e la cortina porosa o trasparente è il tema da risolvere, oltre alle testate architettoniche che comunque rimangono mutilazioni da risolvere. Quindi aumentate lo spazio pubblico – come necessità sociale, culturale e sismica – può essere declinata anche attraverso un progetto ibridato: la terza via.

 

Ha avuto modo di vedere la proposta presentata dal Presidente della Regione nei giorni scorsi?

Ho visto quello che i social ci hanno proposto, spesso filtrato da pregiudizi funzionali. Serve ascoltare il progettista e seguire i metabolismi successivi alla presentazione che trasformeranno l’idea, fino alla sua ultima definizione. Ovviamente ci si aspetta un disegno dello spazio architettonico e urbano che non inganni e che sia strumento di analisi e di verifica dell’idea progettuale, con le sue sezioni urbane e un modello che ci permetta di cogliere la complessità dei luoghi. Serve una modalità narrativa più funzionale, per dimostrare che la domanda non è, se sia opportuno imitare/copiare la storia (o l’antico) ma interpretarla, per decidere le modalità di continuità o di rottura. Attingendo, se necessario, persino all’esperienza della “mimesis” greca intesa come imitazione della storia oltre che della natura.

 

Il Comune di Catania non ha voluto procedere affidandosi a un concorso di idee. Cosa ne pensa? Ritiene più vantaggioso l’affidamento diretto o la consultazione?

Abbiamo perso, per ovvie ragioni, quella relazione virtuosa tra committenza e progettista, legati da una responsabilità culturale e politica. Le grandi opere dell’architettura sono sempre state il frutto di questo rapporto di reciproca fiducia. I Medici, i Papi, fino a François Mitterrand, con la stagione del rinnovamento di Parigi. Non possiamo negare che questo rapporto misura lo spessore culturale della politica e del committente – che rischia in prima persona. Credo che la necessità di combattere anomalie del sistema (le lottizzazioni amicali) ha mortificato la qualità del progetto, sacrificato dalla ricerca di requisiti e garanzie senza fine. Ma questa è una storia lunga e complessa. Una cosa è il conferimento diretto e un’altra è il concorso d’idee, che dovrebbe colmare – quest’ultima – quella qualità della politica che è andata persa: la capacità di individuare bisogni, temi progettuali e necessità rappresentative. Il concorso avrebbe dato una mano per definire meglio il perimetro della questione, senza con ciò privare l’amministrazione di scegliere con serenità un progettista che potesse incarnare l’idea condivisa. Chiamare Paolo Portoghesi o Giancarlo De Carlo significa avere due idee diverse della città e delle sue trasformazioni, indipendentemente dalle loro referenze finanziarie e tecniche.

 

Che ruolo può avere la “partecipazione democratica” nella definizione di questo progetto e più in generale nei processi di rigenerazione urbana?

Sulla partecipazione, a mio avviso, c’è tutto da rifare e molto da chiarire. Se la partecipazione è la libertà di dire quello che si vuole e come si vuole – senza gli strumenti adeguati per valutare – non credo che si possa parlare di partecipazione compiuta. Spesso, proprio dall’interno delle professioni tecniche e accademiche, si incentivano forme di partecipazione che servono solo a governare e plasmare le masse maliziosamente. Vorrei vedere se siamo disposti a rendere partecipativo il lavoro di un chirurgo, di un pilota ecc.; il progettista è uno specialista che governa gli strumenti del progetto e si adopera, con continue verifiche e validazioni, fino alla definizione di soluzioni congruenti. Le fasi della partecipazione sono tante e si esercitano nelle sedi opportune e con le modalità previste dalla legge, certamente non sui social. Le associazioni dovrebbero riscoprire il senso profondo di questo termine. La rigenerazione urbana può avvalersi delle norme vigenti – penso all’ultima legge urbanistica della regione Sicilia la 19/2020 – per esercitare il diritto alla partecipazione. Molte sono le esperienze in Italia e all’estero in tal senso, che non banalizzano il rapporto tra la città, la politica e il progettista.

 

Che ruolo possono avere gli architetti, gli ingegneri e gli intellettuali negli sviluppi di questa vicenda?

Il ruolo che possono avere è proprio questo che stiamo esercitando. Argomentare, discutere, confrontarsi e creare le occasioni per un dibattito permanente, anche sviluppando – come recentemente ha più volte evidenziato Maurizio Erbicella – gli urban center. Questa stessa intervista è la prova che si può discutere con un atteggiamento produttivo, per stimolare riflessioni, approfondimenti e ripensamenti. Credo che gli attori di questa esperienza sapranno cogliere il senso dei contributi. Forse un forum potrebbe in questa fase essere utile, per sostenere lo sforzo di un progettista che rischia di rimanere solo, schiacciato da una responsabilità che non gli compete. Forse il mondo accademico e delle professioni dovrebbero riprendere quella magica stagione dei workshop di architettura e del paesaggio a Catania, per costruire un atlante di esperienze, utili per guidare le committenze verso una maggiore consapevolezza, perché la qualità dell’architettura è qualità della vita, che è lo scopo della buona politica.

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