Il Corriere Etneo propone, a partire da oggi, una serie di riflessioni a caldo sulla vicenda “ospedale Santa Marta a Catania” che ha scatenato, sui social, aspre polemiche da parte delle associazioni di cittadini e di alcuni tecnici del settore.
Ritorniamo sull’argomento, presi dal desiderio di comprendere con più chiarezza le dinamiche e i motivi della trasformazione in atto nell’area dell’ex ospedale ‘Santa Marta di Catania’.
Abbiamo chiesto ad alcuni architetti e ingegneri catanesi un parere sulle scelte compiute fino ad oggi, sia in riferimento alle questioni decisionali – ad esempio la discussa scelta di demolire il vecchio plesso ospedaliero – , sia in riferimento alla recente proposta progettuale. Cominciamo con l’architetto Fabio Guarrera, Ricercatore in Composizione architettonica e urbana dell’Università degli studi di Palermo.
1) Architetto, si è fatto una idea sulla vicenda che sta coinvolgendo l’area dell’ex ospedale Santa Marta? È d’accordo sulla ipotesi di demolire i volumi dell’ex nosocomio per creare una piazza?
Sì, mi sono fatto un’idea e sebbene l’argomento sia estremamente complesso al punto da meritare ulteriori riflessioni, sono convinto di una cosa: non condivido l’ipotesi di creare una piazza in quel punto. A settembre sono stato tra i firmatari di un appello, sottoscritto da diversi professionisti e intellettuali siciliani, per invitare il Presidente Musumeci a rivedere tale ipotesi. Ad oggi però non mi risulta che ci siano pervenute risposte.
Il motivo di questa perplessità è dovuto al fatto che sono profondamente convinto che non ci si possa improvvisare ideatori di piazze. Costruire una piazza, uno spazio pubblico, è un “arte”: è “l’arte di costruire la città”, direbbe Camillo Sitte, architetto austriaco che su questo tema ha elaborato, sul finire dell’Ottocento, un saggio di capitale importanza.
Non si fa una piazza per “aprire”, per così dire, su due piedi, un vuoto urbano. Il progetto di una piazza è un problema che riguarda la morfologia della città, il suo disegno; e questo è particolarmente complesso nella città storica, dove la morfologia è quasi sempre consolidata. Nel caso dell’ex Santa Marta, l’apertura di una piazza in quel punto non credo che dia giovamento alla qualità dello spazio urbano. In quella zona il “vuoto” è rappresentato dall’esedra di Piazza Dante; tuttalpiù è accettabile e consolidato lo spazio del cosiddetto Largo dei Miracoli (dove c’è il benzinaio e il chiosco). Ma eliminare l’angolo urbano tra via Clementi e via Bambino con la pretesa di costruire un “vuoto” davanti ad un palazzo storico che per altro mai ha prospettato su una piazza mi sembra, da un punto di vista morfologico, un grave errore. Ugo Cantone, il fondatore della Scuola di Architettura di Siracusa, che ha sviluppato un fondamentale studio sulla forma e sulle qualità percettive dello spazio urbano catanese (si veda: Ugo Cantone, “La dimensione dell’ambiente: premesse metodologiche di disegno urbano con lettura esemplificativa nella Catania settecentesca”, 1974) sono sicuro sarebbe stato in grande disaccordo con questa decisione. E in realtà è proprio a questo studio di Cantone che dovremmo tutti riferirci per comprendere quanto consolidata sia già la forma urbana di quel contesto e quanto poco questa si presti a subire variazioni.
2) Non ritiene dunque necessario aumentare lo spazio pubblico urbano della città attraverso la creazione di vuoti?
Si, lo ritengo necessario: soprattutto a Catania dove in alcuni punti del centro storico la densità edilizia e la bassa qualità delle costruzioni sono una “bomba ad orologeria” nel caso di terremoto. Diversi anni fa ho avuto la fortuna di confrontarmi su questo argomento con l’architetto Giacomo Leone. Guardando Catania da Google maps Leone mi faceva notare la densità edilizia di alcuni quartieri. Ricordo ad esempio che più volte si era soffermato sul quartiere alle spalle della Chiesa dei Cappuccini, il quadrante urbano intercluso tra via Forlanini e via delle Medaglie d’Oro, dove effettivamente mancano completamente spazi pubblici; spazi necessari non solo per una migliore qualità di vita dei cittadini, ma anche come luoghi di raccolta e soccorso nel caso di calamità. Ricordo che avevamo osservato (e anche fisicamente visitato) il piccolo quartiere della Cave Daniele, un luogo quasi fuori dal tempo, dove la scala urbana è quella del piccolo paese nel pieno centro cittadino. Un ambito urbano caratterizzato da una sola strada di accesso che pone evidenti problemi di soccorso nel caso in cui un terremoto distruttivo dovesse danneggiare gravemente quelle case.
Aprire spazi in questi contesti è dunque necessario e doveroso per alleggerire la densità urbana e migliorare la sicurezza. Ma questa è una strategia che può funzionare solo in alcuni ambiti. Le piazze vanno progettate opportunamente, laddove necessarie; e nonostante ci sia una certa densità anche nell’area urbana dell’ex nosocomio Santa Marta, la costruzione di una piazza in quel punto non risponde a mio avviso a un “principio di necessità”.
3) Ha avuto modo di vedere la proposta presentata dal Presidente della Regione nei giorni scorsi?
Sì, l’ho vista. Non è mai facile giudicare un progetto. Conosco il progettista e so bene che è un professionista sensibile e colto. Il progetto che propone mi sembra però il risultato di un compromesso studiato per accontentare un po’ tutti: realizza la piazza, ma non rinuncia a definire un’idea di fronte urbana attraverso il dispositivo del colonnato coperto da una leggera pensilina. Non voglio esprimere un parere preciso su questo lavoro, ma infelice mi sembra sia il rapporto tra l’ordine gigante della pilastrata e quella leggera pensilina; sia l’idea di differenziare gli stessi pilastri sul lato esterno e interno della piazza. Tuttavia, ripeto: faccio fatica a vedere una piazza in quel punto. Non si può costruire uno spazio urbano senza controllare bene i suoi margini.
Nel caso dell’ex Santa Marta non è possibile controllarli perché non si può intervenire sulle altre fronti degli edifici vicini. Il risultato sarà quello di uno “spazio di risulta”, non adeguatamente plasmato dalle regole del disegno urbano. Bisogna insomma capire che non basta demolire un edificio, mettere un po’ di verde, qualche oggetto di arredo urbano e una bella pavimentazione per fare una piazza: serve molto di più. E questo di più deve partire dallo studio attento della città storica, dalle sue tracce e dai suoi insegnamenti.
4) Il comune di Catania non ha voluto procedere affidandosi a un concorso di idee. Cosa ne pensa a riguardo? Ritiene più vantaggioso l’affidamento diretto o la consultazione?
Io su questo discorso non riesco a convincermi su quale sia la soluzione migliore da adottare. Ritengo che se si è convinti delle capacità di un progettista si può affidare allo stesso il compito di realizzare un’opera anche senza una consultazione. Di contro, il concorso di idee è un ottimo strumento per indagare i problemi, per formulare differenti punti di vista. Probabilmente in questo caso avrei fatto un concorso ma senza l’obbligo di immaginare una piazza. Sono sicuro che molti progettisti avrebbero rinunciato a questa scelta optando per la ricostruzione di un edificio sul sedime dell’ex ospedale.
A tal proposito una nota, se mi è concessa, vorrei esprimerla: io non avrei demolito la vecchia struttura ospedaliera. Si tratta di un opera non eccellente ma dignitosa, stilisticamente legata a un periodo storico preciso, che si è in qualche modo “consolidata”. Se passi da lì insomma non la noti, o per lo meno non noti un edificio che “urla”, che manifesta il proprio ego. Proprio per questo motivo non la butterei giù (ma forse i lavori di demolizione sono già iniziati!). Se mai si dovesse costruire in quel luogo un nuovo edificio, il nuovo “pieno urbano” non dovrà discostarsi troppo da questa ricercata seppur discussa “modestia”.
5) Che ruolo può avere la “partecipazione democratica” nella definizione di questo progetto e più in generale nei processi di rigenerazione urbana?
Ritengo che la partecipazione cittadina alla costruzione dell’immagine della città sia sempre un fatto positivo. Anche se i cittadini esprimono a volte pareri sommari, soprattutto attraverso il web. Nel caso dell’oggetto del nostro dibattito ho letto di tutto: qualcuno vorrebbe un giardinetto in stile Versailles, qualcun altro lo vorrebbe recintato per motivi di sicurezza, ecc.
Sono convinto che sia importante ascoltare i cittadini per acquisire informazioni circa i desideri e le esigenze della gente. Se coinvolte, le persone si sentono partecipi della realizzazione. Nonostante ciò le scelte progettuali deve farle il progettista: è lui che si deve assumere la responsabilità del progetto. Ma è anche lui che deve in qualche modo contribuire ad educare per far comprendere la fondatezza delle scelte compiute.
6) Che ruolo possono avere gli architetti, gli ingegneri e gli intellettuali negli sviluppi di questa vicenda?
Il ruolo dei professionisti dovrebbe essere quello di avviare un confronto collettivo sulle ragioni del progetto. Gli architetti e gli ingegneri dovrebbero costantemente confrontarsi, parlarsi, scontrarsi per trovare un punto di vista condiviso. I progettisti dovrebbero avviare un necessario processo conoscitivo sulla città e sulla sua storia. Dovrebbero evitare di chiudersi su se stessi celebrando la propria autoreferenzialità. È questa a mio avviso la strada maestra per trovare soluzioni condivise: il confronto necessario, prima ancora che con la gente comune, deve essere avviato tra gli operatori del settore. Bisogna tentare di costruire una collimazione di intenti su ampia scala, al punto da potere intervenire e modificare, migliorandolo, l’ambiente tecnico in cui si è chiamati a lavorare.