Si allarga a macchia d’olio la lista dei ‘reclusi in casa’ che aspettano di conoscere l’esito del tampone per sapere se hanno riconquistato la libertà.
A Santa Maria di Licodia una coppia di professionisti – l’avv. Sara Borzì e il marito, Carmelo Minutolo, impiegato – sono barricati in casa dal 27 ottobre scorso.
Quel giorno, dopo un tampone rapido effettuato privatamente, hanno appreso di essere entrambi positivi. Negativa, invece, la loro bambina di 7 anni.
Segnalata la cosa alle autorità sanitarie, il 29, il personale dell’Usca va a fare il test a domicilio. Il risultato – comunicato via telefono – conferma la positività di marito e moglie.
Un nuovo tampone molecolare viene effettuato l’8 novembre, stavolta però nessuno comunica l’esito. E l’attesa di una risposta si fa asfissiante.
“Ho provato in tutti i modi a chiamare qualcuno – racconta al Corriere Etneo l’avv. Borzì – ma è stato tutto inutile.
Abbiamo fatto decine di numeri telefonici risultati inesistenti. Io e mio marito ci siamo rivolti perfino ai Carabinieri. Il nostro medico curante ha anche inviato una mail di sollecito.
Ma nessuno ci ha contattato. Chiusi in casa, con la nostra bambina che sappiamo essere negativa, stiamo tutto il giorno con la mascherina per paura di contagiarla.
“La cosa assurda aggiunge – è che a noi non è mai arrivato il certificato di inizio della quarantena. Quella dichiarazione riporta una dicitura secondo la quale dopo 21 giorni, se negli ultimi 3 non si hanno sintomi, si può uscire di casa.
E invece noi non abbiamo nemmeno quella.
La cosa complica il tutto anche sul piano della mia professione: per chiedere di essere sostituita nelle udienze non ho una comunicazione ufficiale, se non un certificato privato.
“Non mi sarei sognata – conclude l’avv. Borzì – di protestare e distogliere i medici dal loro lavoro ma qui parliamo di un compito meramente amministrativo. Ci sono tanti dipendenti che possono svolgere questo compito: metteteli al lavoro, anziché creare questo disastro”.