Le notizie rimbalzano sui social. Risse, assembramenti, corse con le macchine, schiamazzi.
Le piazze sono colme di carne umana, invase da fiumi parlanti e gli adolescenti sono i padroni della notte; indisturbati governano ogni luogo, dentro o fuori dal centro. La pandemia non gli appartiene, le mascherine sono un intralcio al desiderio di apparire, la negazione dei loro volti, la privazione di una libertà finta. La notte è una festa orgiastica, un carnevale di suoni ossessivi, una passerella di abiti luccicanti fin dentro le zone scure della città, fin dentro l’acropoli.
A scuola, a casa, nelle parrocchie sono diversi.
Ordinati, rispettosi delle norme, attenti alle procedure e persino preoccupati della malattia. Si muovono ordinati, in fila, lentamente. Online, offline, comunque presenti e attenti. Studiano, ricercano. Partecipano, si informano. Conoscono i loro diritti, sono giudici spietati nei confronti di chi si muove con affanno tra le infinite norme del contrasto al Covid-19.
Quello che appare evidente è lo sdoppiamento dei comportamenti. Dentro le istituzioni sociali – scuola, famiglia, parrocchia, sport – tutto è regolare, ordinario, coerente, rassicurante. Fuori dalle istituzioni – nel buio della notte – tutto diventa, per gli stessi protagonisti, trasgressione, eccesso, follia. Non per tutti ovviamente ma dopo una passeggiata lungo le vie del centro storico e sull’acropoli, nelle ore notturne, sembra di assistere a un capovolgimento della personalità.
Abbiamo sentito tante voci, testimoni di questo fenomeno, e quasi tutte sono incredule e rassegnate. Cosa succede ai nostri ragazzi? Se le istituzioni svolgono meglio che possono il loro dovere, da dove attinge questa generazione gli esempi per emulare? Forse la TV, la musica, il cinema? Il rischio è colpevolizzare il mondo mediatico esterno riducendo questi ragazzi a semplici spugne culturali. Forse c’è dell’altro. Una sofferenza diffusa, nascosta, sommersa, quasi invisibile.
Le risse dentro i vicoli della città, le notti misteriose sull’acropoli, le urla nelle piazze, le corse lungo le strade, le scritte sui muri, le bottiglie rotte sull’erba, il veleno che invade le vene, la rabbia contro ogni cosa e persona. I cellulari che riprendono gli spettacoli organizzati della notte con linguaggi pornografici e blasfemi. Ma sono gli stessi ragazzi delle scuole e delle parrocchie? Ci piacerebbe pensare di no, ci piacerebbe pensare che sono ragazzi che vengono da una città lontana e che non sono i nostri figli. Ma non è così. E se qualcuno pensasse che tutto questo si celebra solo sotto casa nostra si sbaglia. Questa liturgia si celebra in ogni città, quelle prive di controllo.
L’acropoli, di notte, è un luogo attraversato da forze contrapposte.
Chi vive quel luogo come spazio per l’incontro, per la contemplazione, per costruire amori e amicizie e chi lo usa per seminare terrore. Dentro il cimitero, adiacente alla cappella Cutore si consuma il lato oscuro della notte. Ombre umane che invadono il regno dei morti per seminare tristezza, entrando e uscendo indisturbati. Questo è il risultato dell’abbandono, dell’incuria, della superficialità.
Bisogna essere presenti, davvero.
Presenti sempre, ovunque. Bisogna occupare con l’arte, la cultura, la bellezza ogni angolo della città. I nostri ragazzi hanno bisogno di opportunità, di luoghi istituzionali (notturni) per esercitare il piacere di stare insieme (non delle nostre noiose conferenze). Gli adolescenti hanno bisogno di luoghi, di occasioni, di opportunità per esprimere la loro vivacità. Dentro un sistema di regole garantite. Il vuoto produce vuoto. Non è un locale notturno che risolve la questione, non sono gli orari dei locali che mitigano le criticità, non sono le paternali che aggiustano il giocattolo rotto. Bisogna parlare con i ragazzi, sentire le loro esigenze, capire i loro sogni.
Bisogna far vivere la città nelle sue parti.
Offrire spazi laboratoriali per la danza, la musica, l’arte, lo sport.
La città ha bisogno di città. I ragazzi hanno bisogno di essere protagonisti della città, senza far ricorso a sterili consulte politicizzate, ma con spazi, eventi, attraverso un patto di co-responsabilità. Chiese aperte, monumenti aperti, parchi aperti. Aprire ma controllare. Co-gestire con le forse innovatrici della città, strutturando un piano di sviluppo delle comunità giovanili formali e informali, sportive e confessionali, culturali e sociali, artistiche ed ludiche.
Il carnaio di giovani senza mascherina che naviga per la città, la notte non è l’infezione ma la febbre di questa società, e quindi bisogna agire nei confronti dell’infezione per curare la città.
Ma bisogna sentire, ascoltare i sogni di questi ragazzi che non vedono più un futuro possibile, perché gli adulti siamo impegnati a fare altro, a raccogliere consensi facili, adesioni funzionali, alleanze fragili, perché gli adulti non sappiamo più piantare alberi ma solo zizzania, perché è più facile distruggere che creare. Serve una nuova generazione di eroi miti per sovvertire questa pandemia dell’anima, per ritrovare l’orgoglio di essere parte attiva della città e non inutili spettatori in balia del sentito dire. Serve essere città.
Foto di Emanuela Grasso da ‘La città delle giovani donne’; ballerine Paola Tranchida e Carlotta Scaletta.