Succede in Campania ma potrebbe accadere ovunque; in questo Paese pazzo che è l’Italia.
Un borgo rurale del ‘700, costruito sui resti di una villa romana è stato demolito per realizzare un moderno residence, opportunamente presentato ai futuri compratori come sostenibile, green e impreziosito dalla piscina. Un capolavoro di follia che merita una riflessione più ampia.
Questi i fatti avvenuti a Giugliano, comune della città metropolitana di Napoli.
Sui social rimbalza la notizia che diventa virale e in molti rimangono basiti, increduli. In tanti manifestano il proprio dissenso, l’amarezza per un gesto che rasenta la follia e appare inspiegabile. Ma come si è potuto realizzare tale delitto? E gli enti preposti alla tutela, al controllo, alla salvaguardia? Quasi un giallo, un mistero intrigato. Ma il cadavere architettonico è emerso dalla nebbia e non ci rimane che indagare, per comprendere le ragioni di questo accadimento.
Tralasciamo la storia del manufatto, già abbondantemente approfondita in questi giorni. Le questioni rilevanti sono che l’architettura in questione è una testimonianza storica di civiltà – sia sul piano morfologico, tipologico tecnologico che antropologico – che costituisce un paesaggio di pregio della campagna campana e che sorge sui resti archeologici di una villa romana. Tanto basta.
Ma allora perché è successo tutto questo? Se consideriamo tra l’altro le reazioni, diffuse e autorevoli, anche dell’Archeoclub d’Italia che, appresa la notizia, ha manifestato la sua contrarietà, come altre associazioni e membri della società civile: critici dell’arte, artisti, architetti, intellettuali, docenti, archeologi.
Insomma tutti sono d’accordo ma resta il fatto che il villaggio Zaccaria costruito nel ‘700, sui resti di una villa romana è stato distrutto e le ruspe sono già al lavoro.
Non ci rimane che riflettere sulle ragioni di tale catastrofe, per evitare il ripetersi altrove.
In questo senso le cause sono da ricercare nel mancato riconoscimento di valore del bene – da parte dei singoli, della collettività e degli enti – nella rinuncia al progetto, come strumento di governo della trasformazione e nella mancanza di una visione etica dell’architettura. Non sono concetti complessi ma comunque essenziali per comprendere questa anomalia procedurale.
Riconoscere un bene, attribuirgli un valore, individuarlo come bene da tutelare e conservare significa – sia sul piano dei singoli che della collettività – aver compreso la sua stratificazione nel tempo; individuato quegli elementi che intendiamo conservare a futura memoria. Significa conoscere i tipi, le tecnologie, i linguaggi e la storia antropologica di quel paesaggio culturale.
Non possiamo riconoscere se siamo privi di strumenti di riconoscimento. Per tutto questo, serve uno spessore culturale. Serve una conoscenza sistemica, multidisciplinare, funzionale. Serve riconoscere l’originalità dello spazio, delle tecnologie, dei linguaggi. Per ricavare da questi saperi, le ragioni della conservazione.
Ma nello stesso tempo, serve un progetto. L’idea che attraverso questo dispositivo tecnico-culturale-teologico si possa rifunzionalizzare un manufatto o un cadavere architettonico per conferire vita nuova senza rinunciare alla tutela della memoria. Questo processo creativo è più complesso, più faticoso, e necessita di pazienza, di metodo, di applicazione. Appare più facile demolire (attraverso la tabula rasa) per “appiccicare” un modello funzionale e formale pre-costituito. Diciamo anche che una certa imprenditoria edile vuole vincere facile e con essa quella categoria di progettisti che usano spesso il comando “copia e incolla” o “stretching” di autocad, per trovare scorciatoie (il praticismo convulsivo).
Misurare, orientare, verificare, aggiustare, adattare, sono procedure complesse, che richiedono un maggior sforzo.
Il progetto, inteso come metodo del controllo della trasformazione impone tutto questo. Ma il risultato è quello di realizzare luoghi di architettura contemporanea senza rinunciare alla storia. Un diverso valore: culturale ed economico.
Ma è anche una questione etica. Riconoscere un valore alla storia, alla materia, allo spazio, ai processi creativi, significa scegliere un preciso modus etico-morale. Significa rispettare i luoghi, senza rinunciare alla loro trasformazione. Significa far rivivere le antiche fabbriche, compatibilmente con la loro natura, senza forzature, senza andare oltre, verso una produttività irreversibile.
Conta più la quantità dello spazio o la qualità dello stesso? Ma spesso si inseguono le icone (effimere) del successo. La piscina, il residence, il facile guadagno. Insomma l’illusione. E dopo aver letto le ricette sul dopo covid-19, quelle che ci indirizzano verso i borghi rurali, per un nuovo rapporto con la natura e l’umanità, ci ritroviamo a commentare l’ennesimo fraintendimento speculativo farcito di parole ammalianti: green, sostenibile, con piscina.
Una bufala che andrebbe smascherata una volta per tutte, perché tutto questo fa male all’architettura; penalizzata dalla diffidenza – da parte dell’opinione pubblica – che provocherà questo delitto, nei confronti del progetto di rigenerazione delle rovine e delle macerie storiche, che molti architetti interpretano magistralmente.
Una brutta storia da raccontare, per non ripetersi. Ma vale solo per la Campania?