L’architetto mette al mondo case come figlie ripercorrendo la liturgia dell’abitare

L’architetto mette al mondo case come figlie ripercorrendo la liturgia dell’abitare

Che strano mestiere quello dell’architetto.

La sua natura è quella di immaginare lo spazio che non c’è, di trovare le relazioni tra le parti: un giardino, l’orizzonte, una bucatura. Il suo compito è scavare, plasmare, aggiungere: attraverso l’uso della materia, del colore, della luce e dei simboli. Il suo compito è creare le migliori condizioni per rendere i luoghi abitabili.

Che non significa solo stare sotto un tetto, significa diventare parte di una storia, dentro uno spazio immaginifico e nello stesso tempo reale. Tutte le volte che è chiamato a dare queste risposte, consacra la sua vita all’architettura, all’arte antica di plasmare gli elementi della natura.

Guarda il sole e le stelle, sente il profumo dell’erba e la ruvidezza delle pietre.

L’architetto mette al mondo case come figlie ripercorrendo la liturgia dell’abitareAttraversa lo spazio concesso; i ruderi che osserva come un materiale grezzo e la terra, dove tutto si compie. Osserva ogni elemento, il vento, le ombre, gli azzurri cangianti del cielo.

Accarezza i muri, sente la storia dentro ogni piega, e percepisce i suoni di tutti quegli uomini che hanno abitato lo spazio della futura metamorfosi. Si realizza un nuovo rapporto tra lui e il luogo, un corteggiamento lento, una liturgia dell’avvicinamento. Che sia una rovina o una terra vergine, non importa. Quello che conta è la verticale che il suo corpo determina rispetto all’orizzontalità della materia da trasformare. L’istante in cui la rotazione dello sguardo conquista ogni paesaggio visibile e registra ogni possibile emozione che diventa la narrazione dell’abitare da condividere – dopo mesi di lavoro – con gli abitanti finali.

Il tempo dell’immaginazione, della sintesi e della trasformazione sono dell’architetto. Lui si sente a casa, l’attraversa con piccoli schizzi, con le macchie di colori e i modelli di legno che descrivono ogni angolo della casa. Diventa parte di essa e simula ogni piccolo gesto, come lavarsi, incontrarsi, cucinare e fare all’amore.

Nella sua mente, dentro il suo mondo, ripercorre ogni momento, ogni variabile, ogni liturgia dell’abitare come fosse la sua casa. Tanto di quelle volte che il suo corpo la sente sua, modellandola ogni istante.

Dentro la borsa nera, quella che contiene ogni cosa, si conservano fogli di carta che nascondono i suoi pensieri: uno scorcio, un dettaglio, una strategia. Con il tempo, via via che le maestranze rifiniscono le pareti di bianco, gli schizzi conquistano le pareti e invadono le superfici bianche intonacate. Ancora dettagli, scorci e strategie. Disegni che servano a capire, a comprendere a spiegare meglio a se stessi e agli altri.

Ogni sopralluogo, ogni visita in cantiere, è una festa di sorprese, un esame, una lotta, un ostacolo da superare.

L’architetto mette al mondo case come figlie ripercorrendo la liturgia dell’abitareAllineamenti, corrispondenze, nuove visuali. Lo spazio che si mostra dolcemente e allora si ripassano le liturgie dell’abitare, si verificano le relazioni e le congruenze. Ancora una volta. Si entra e si esce come se fosse casa nostra ma più si va avanti e più si percepisce che quello spazio non ci appartiene anche se diventerà parte della nostra storia.

Gli uomini e le donne che abiteranno la casa, sono miti, irruenti, esigenti, accomodanti. Sono mille cose insieme. Sono uomini e donne che aspettano di vivere una nuova vita, che aspettano di misurare quegli spazi con i loro corpi, con le loro abitudini, con le loro liturgie. Una magia che si celebra ogni volta. Saranno loro che ridisegneranno ogni spazio, che troveranno le relazioni e i significati. Lo faranno piano piano, lentamente e qualche volta inconsapevolmente. Perché molte geometrie resteranno un mistero, un segreto. Un documento nascosto che si porterà dentro quell’architetto che ha vissuto per poco quella casa come se fosse stata sua.

Lo sguardo diventa ogni giorno sempre più malinconico come se volesse fissare ogni ricordo. Ogni giorno uscire da quella casa, da quell’architettura (pubblica o privata poco importa), è sempre più difficile, eppure lui lo sa. Ci sarà un momento in cui per entrare e rivedere la creatura dovrà bussare, chiedere il permesso, sperare nella benevolenza dei proprietari. Avrebbe voglia di non finire mai, avrebbe voglia di essere Penelope ma nello stesso tempo non vede l’ora che tutto funzioni come lui ha immaginato. Sembra la cosa più straziante del mondo, pensare di aver generato qualcosa per poi cederla ad altri. Ma non è così. Esiste una felicità sottesa nel vedere i nuovi abitanti felici, muoversi dentro quello spazio, diventarne i veri protagonisti. Per questo la generazione di questo spazio non può essere una questione personale, dell’architetto, ma una condivisione consapevole. Un percorso comune di scoperta, di modellazione, di svelamento.

Alla fine si faranno le foto, si guarderà l’ultima volta ogni angolo della casa, si sorriderà e si piangerà.

L’architetto mette al mondo case come figlie ripercorrendo la liturgia dell’abitareAlla fine in quella casa nascerà un albero, si guarderà la prima pioggia, si farà il caffè e si berrà del vino. L’architetto conserverà i suoi segreti, le sue speculazioni sulle forme e sulla luce.

L’architetto e gli abitanti saranno legati da un sottile filo, sempre più invisibile, che diventerà una storia, un racconto, come quello che state leggendo adesso.

L’architetto, quando le sue mani e i suoi occhi saranno stanchi, sarà dentro ogni sua creatura, con delicatezza, e le ricorderà tutte come fossero le sue figlie e ricorderà quella buffa frase che spesso diceva: “Mi piacerebbe abitare qui, dentro questa casa”. Era la conferma che tutto era andato per il verso giusto: ora doveva solo andare via per sempre.

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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