Solstizio: la festa della luce ci svela che il Castello di Paternò è un orologio solare

Solstizio: la festa della luce ci svela che il Castello di Paternò è un orologio solare

La notte sembra profonda, un deserto scuro circonda la città.

L’aria fresca punge la carne tremula di quei pochi uomini che attraversano un labirinto di pietre antiche, fin sull’acropoli di Hybla. Soldati silenziosi che provano a trovare la luce dentro il castello di Federico II. Uomini e donne curiosi, come quel monaco con gli occhiali del “nome della rosa” di Umberto Eco.

Solstizio: la festa della luce ci svela che il Castello di Paternò è un orologio solareMacchine fotografiche, telecamere, attrezzature per misurare il tempo. Dentro la rocca due custodi con gli occhi ancora chiusi che aprono le porte della torre. Piano piano, uno, due, tre, tutti conquistano il salone delle grandi bifore. Ancora è notte e all’orizzonte si svela il profilo della montagna che dalla vetta arriva fino a mare. L’azzurro è intenso, vivo, punteggiato di stelle e satelliti volanti. La città è una costellazione di piccole luci come un ricamo di pizzo.

Le fotocamere prendono posizione, si controllano le visuali, la luce, le inquadrature. Uno scambio frenetico di idee, aspettative di speranze. Nulla è scontato, nulla è sicuro. La luce del sole entrerà dalla grande bifora e non sappiamo come e quando. Tutto è pronto, tutti a controllare il sole, che si nasconde dietro i monti di Nicolosi, quelli della grande eruzione del 1669. Aspettiamo impazienti, con la paura di non trovare nulla, di non scoprire nulla, di non verificare nulla.

Una vedetta conquista una finestra più alta, da dove si può aspettare il sole nascente nel solstizio d’estate. Aspetta, spera, fino quando dalla linea dell’orizzonte appare la corona del sole. Trenta gradi a est, nord est. Eccolo il sole e allora giù dalle scale fino alla telecamera accesa per vedere cosa succede.

Uno spettacolo, una magia, un colpo di scena. Tutti increduli, senza parole. Gli occhi luccicano, c’è voglia di abbracciarsi ma non si può. Gli sguardi si intrecciano come i sorrisi. La paura scivola sotto le scarpe e viene voglia di gridare. Il sole non ha tradito, le pietre hanno parlato. Federico II è ancora qui, con noi, spettatori di un miracolo della natura addomesticata dall’uomo.

Misure, metri, mani, matite, coincidenze. Ripetute, trovate, ora tutto è più chiaro. C’è voglia di caffé e di cornetti, c’è voglia di dirlo al mondo, c’è voglia di ricominciare. Abbiamo dimenticato la notte, alle nostre spalle il buio. La luce ha vinto ancora una volta. Gli antichi uomini di questa terra sapevano misurare il tempo e lo spazio. Oltre la loro ombra, verso l’orizzonte sconosciuto.

Solstizio: la festa della luce ci svela che il Castello di Paternò è un orologio solareCon le mani si misura l’alba e la sua proiezione sulle mura. Tutto diventa chiaro, tutto si svela. Demetra, Iside, la vergine, il sole. L’uomo si ricongiunge con la natura, con il cosmo. Il castello di Paternò (il Dongione) è un orologio solare. Questa è la scoperta di questi piccoli uomini. Scontata? Ovvia? Non saprei.

Siamo testimoni di una pagina importante; siamo testimoni di una magia che ogni anno, nello stesso giorno, si ripete da secoli. Una liturgia della luce. Il solstizio d’estate, uno modo per ricordare e celebrare.

La verità è che bisogna ripartire dallo svelamento dell’identità, per rigenerare una comunità. L’identità perduta è forse la causa di tante disgrazie, di innumerevoli insuccessi. Serve scavare nella memoria, non per diletto ma per sopravvivenza. Serve capire, cercare, trovare, verificare. Ogni angolo di questa terra, in ogni tempo, dentro ogni anfratto. Serve per ritrovare la retta via. Serve spazzare le vecchie idee, le superstizioni, le dicerie.

Che avventura, che sorpresa, che magia. Gli occhi brillano alle donne e agli uomini che hanno visto l’alba da dentro la torre, un privilegio per pochi per raccontare a tanti. Noi c’eravamo, noi siamo testimoni, noi abbiamo visto l’alba nuova. Era una ricerca dell’Archeoclub d’Italia, nata per caso cercando Demetra, cercando Hybla.

La torre è scavata, dentro le sue mura, scavata per costruire i luoghi dell’abitare. Bucata per raccogliere il sole e per raccontare la sua storia e guardare il cosmo. Prima di Ruggero e oltre il tempo. Il simbolo laico di questa città, vicino all’icona del sacro, la chiesa di Santa Maria dell’Alto, quello che doveva essere il tempio di Demetra, vicino alla casa di Venere.

C’è molto da fare ancora, molto da scoprire ma oggi la luce è entrata dentro la torre per emozionarci e suggerire la nuova rotta verso il futuro.

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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