Le città riprendono a vivere, riconquistano le loro liturgie. Dopo mesi di silenzio, solitudine e abbandono, si riaccende la vita, dentro ogni spazio urbano. Mercati, insegne, macchine sfreccianti sull’asfalto, schiamazzi.
Quasi abituati all’isolamento, dentro le case, a gustare le città deserte, come non avevamo mai visto
Le giornate sono passate osservando la natura che riconquistava ogni spazio e all’imbrunire tutto si spegneva silenziosamente. Attraversare le città di notte era un’esperienza surreale che ci lasciava attoniti e smarriti.
La movida che caratterizzava i nostri centri storici è scomparsa; le insegne spente, le porte sbarrate. Sparsi sotto gli alberi e vicino i locali, i resti di tavoli, le tracce di una (in) civiltà scomparsa. Un sentimento contrastante tra la rassicurazione del silenzio e la consapevolezza della tragedia. Qualcuno ha sperato per sempre, qualcuno stava morendo lentamente.
Dentro questo conflitto di sentimenti, tra il desiderio di vivacità e la necessità di tranquillità, si consuma un dibattito che spesso non viene approfondito – analizzando le cause, le concause e le possibili soluzioni – ma solo istigando a schierarsi da una parte o dall’altra.
Le città hanno bisogno di coltivare la socialità, anche quella notturna, che genera economia, reddito, produzione, posti di lavoro. Le città hanno bisogno di feste, di musica, di teatro, di offrire spazi per l’incontro, per tutte le generazioni.
Ma le città hanno bisogno anche di sicurezza, di controlli, di presidi, di regole, di norme, di educazione urbana e di cittadinanza. Non possiamo non osservare altre esperienze in Italia e in Europa. Non possiamo ridurre tutto in chi è per la movida e chi è contrario. Bisogna a questo punto comprendere quali sono gli elementi in gioco.
Se qualcuno crede che chiudere anticipatamente i locali notturni sia la soluzione, non ha valutato molte condizioni del problema. Non ha valutato, che chi disturba la socialità notturna non sono i clienti dei locali, ma una minima parte di “soggetti” che hanno come unico scopo la pratica del vandalismo urbano, in tutte le sue declinazioni.
Questi che vivono ai margini della movida, tra gli spazi della socialità e la città abbandonata, agiscono come provocatori e s’insinuano nel tessuto sano dei nostri giovani. Quasi invidiosi di quella bellezza che traspare dai colori, dalle voci e dai profumi della gente, che attraversa le piazze e i vicoli illuminati; invidiosi della bellezza della musica, dei suoni della vita, degli sguardi – filtrati dalle tante lucciole, di ambra, ghiaccio e blu indaco che sono i bicchieri di birra, di gin e di rum, illuminate dalle insegne.
Tra queste poesie di colori e di sapori che generano vitalità cresce una metastasi che distrugge, contamina e ammala la parte buona della nostra società, della nostra gioventù.
Lo fa acquistando alcol nelle ore pomeridiane, a basso costo e producendo “bottiglioni” di schifezze da consumare la notte. Emarginata dalla movida, sente la necessità di rovinare tutto e per farlo deve confondersi con essa, farne parte e mostrare il peggio di se stessa. Mele marce che con malizia provocano tanti bravi ragazzi.
La loro fierezza consiste nello spaccare citofoni, defecare davanti ai portoni, urlare senza pietà, sgommando e mettendo la musica a palla e provocando risse futili, per concludere la notte nelle periferie più isolate per trasformarle nelle discariche orgiastiche – di rifiuti, di bottiglie rotte e di preservativi – che poi scopriamo la mattina seguente, uscendo dalle nostre case.
Se cerchiamo la colpa di tutto questo nei gestori dei locali forse stiamo sbagliando, se condanniamo i residenti – stanchi e rassegnati, forse stiamo sbagliando. Le comunità devono essere educate, guidate, accompagnate. Il comparto della ristorazione notturna, deve essere sostenuto, per espandere le opportunità di rigenerazione urbana.
Senza quel tessuto produttivo di piccoli locali, di pub, di pizzerie e di ristoranti, non possiamo raggiungere alcuni obiettivi strategici. Per esempio arginare la desertificazione dei centri storici; diventare attrattori di investimenti di riqualificazione urbana; evitare l’emorragia verso altre città, dei nostri giovani – spesso minorenni – a tutto discapito dell’economia locale e della serenità di molti genitori.
Serve un patto tra gestori e residenti, tra governo della città e le comunità giovanili, tra le generazioni. Serve un piano, come sempre, serve un piano.
Una strategia complessiva che metta in campo politiche culturali, economiche, di governo della città. Un piano per incentivare la legalità, per vivere con trasversalità generazionale la città. Un piano di eventi, per tutte le età che non solo offra opportunità di lavoro ma che costituisca informalmente un presidio permanente.
Le piazze devono essere occupate dalle nuove generazioni, dagli adulti, dalla musica, dal teatro, dal cinema, dalla poesia, sino a una certa ora (mezzanotte, l’una?).
Le piazze devono essere monitorate, videosorvegliate, controllate dalle forze dell’ordine. Le bevande da asporto vendute in bicchieri di bioplastica (organica, per educare all’ambiente). Rendendo pedonale gli spazi della movida, per impedire le sgommate, creando uno spazio protetto notturno.
Servono premialità (fiscale ecc.) per i gestori dei locali e i residenti, nel momento in cui controllano, ripuliscono e garantiscono maggiore sicurezza e vivibilità. Serve un piano non una legge che sembra essere ispirata alla cultura del proibizionismo degli anni ’20 in America; sembra il modello “Trump” che irrompe nella nostra modernità e nella voglia di ricominciare a vivere insieme serenamente.
Serve un patto condiviso e flessibile e non una rigida restrizione monocratica per tutte le città.