“Si può sbagliare ma è sciocco perseverare” nell’errore.
Per questo, “ora che lentamente la pandemia di coronavirus Sars-Cov-2 sta diminuendo” dopo aver provocato tanti lutti (“la mortalità in terapia intensiva è stata vicina al 50%”), serve affrontare una riflessione, capire cosa non ha funzionato.
E “migliorare la capacità di fronteggiare le emergenze”. E’ per esempio una soluzione realistica e praticabile l’aumento del 70% dei letti di terapia intensiva disposto dal governo italiano? La risposta è no, per il decano dei rianimatori italiani Luciano Gattinoni, oggi in forze all’università di Gottinga in Germania, e per Alberto Zangrillo, direttore delle Unità di anestesia e rianimazione generale e cardio-toraco-vascolare dell’ospedale San Raffaele di Milano. Per realizzare questo piano servirebbe formare e assumere migliaia e migliaia di infermieri e medici e raggiungere tali numeri in breve tempo non è possibile. ”
Ci vorrebbero anni” anche solo per coprire i fabbisogni medici di “un aumento del 15-30%” dei posti, a detta degli esperti. E anche l’incremento previsto di borse di studio nelle scuole di specialità avrebbe un effetto a lungo termine, non immediato. Si dovrebbe, a detta di Zangrillo e Gattinoni, imparare dagli errori, non dimenticare “la lezione della Lombardia”. E’ questo in sintesi il senso di una lettera che i due specialisti hanno scritto a una rivista scientifica di settore, quella della Società europea degli intensivisti. Certo, ragionano i camici bianchi, non solo a Milano con l’ospedale in Fiera si sono investiti milioni di euro per creare in tempi record strutture con letti di terapia intensiva che oggi accolgono pochi pazienti. E’ successo a Londra, come a New York o a Barcellona e Madrid, elencano.
In Lombardia, il tasso di mortalità è stato “4 volte più alto” di quello registrato nel vicino Veneto, prosegue la riflessione di Zangrillo e Gattinoni. Questa differenza può avere più spiegazioni, una delle quali potrebbe essere “un’organizzazione medica territoriale efficace” che potrebbe aver mitigato l’impatto di Sars-Cov-2.
E’ possibile che una quota della mortalità in terapia intensiva durante le epidemie sia dovuta al numero schiacciante di pazienti. Le cure intensive svolgono un ruolo chiave soprattutto quando non ci sono farmaci efficaci e specifici contro una malattia come nel caso di Covid-19.
Tuttavia l’improvviso aumento di questi letti può non risolvere del tutto i problemi per via della “diluizione del personale addestrato” e del conseguente rischio che “cali l’intensità e l’adeguatezza delle cure”, nonostante “gli sforzi enormi” dei singoli operatori. Il Ssn aveva avuto in passato uno ‘stress test’ per avviare una riflessione, la pandemia di H1N1 nel 2009, non mettendo del tutto a frutto la lezione, ma comunque dando vita alla rete dei centri Ecmo (dotati delle macchine salvavita per la circolazione extracorporea). Ora, concludono i due esperti, si pone di nuovo l’esigenza di “un’analisi critica di cosa ha funzionato e cosa no”.