Vivere la nostra casa: come viaggiatori scoprire la bellezza dei luoghi che abitiamo

Siamo sicuri di conoscere i luoghi dove abitiamo? Abbiamo la consapevolezza di essere i custodi della memoria? Riusciamo a vedere la rete che unisce ogni cosa nello spazio e nel tempo? Nulla di tutto questo è scontato e la cosa peggiore è che a tutto questo non diamo la giusta importanza. La collettività spesso immagina che la storia di un luogo sia una questione di pochi, ininfluente per molti, inutile per costruire sviluppo. Argomenti e conoscenze, relegate al mondo delle cose poco pratiche.

Ci basta poco, magari una leggenda, la storia di un monumento, di un quadro; tanto può bastare, per immaginare una dignità turistica e culturale dimenticando tutto il resto e anestetizzando il desiderio di sapere.

Difficilmente siamo capaci di descrivere “casa nostra”, perché l’immersione dentro uno spazio fisico e culturale ci allontana dal desiderio di indagare e di esplorare le profondità dei paesaggi che ci accolgono quotidianamente. Ogni scorcio, veduta o fotografia della città, dei suoi luoghi rappresentativi o della stessa campagna diventano scontati, ovvi e trasparenti. Lo stupore che emoziona la nostra mente appartiene più all’esperienza del viaggiatore che a quella del residente. Siamo curiosi e indagatori solo quando attraversiamo un’altra città, altri spazi e lo facciamo con voracità, sempre se siamo viaggiatori e non turisti per caso.

I viaggiatori del ‘700 e dell’‘800 – in particolar modo nella nostra amata Magna Grecia – hanno svelato le identità nascoste. Hanno registrato l’esistenza di popoli e di civiltà scomparse nell’oblio della quotidianità. La nostra gente non sapeva di avere a portata di mano l’immenso patrimonio di cui oggi ci vantiamo nel mondo. O forse, è meglio dire che non lo percepiva come patrimonio culturale e ambientale: erano “pietre vecchie”. Questi viaggiatori hanno ripercorso le vecchie vie, le antiche regie trazzere, i camminamenti dell’antichità e svelato le costellazioni dell’abitare, narrando – con il disegno e la scrittura – l’atlante della bellezza. Rovine, scorci di natura, strade e città, cippi, sculture e leggende. Un palinsesto di cartografie geografiche e dell’immaginario; un tesoro di documenti e tracce che ricostituivano i fili persi di un territorio ormai sfilacciato.

Anche gli artisti – di ogni tempo – hanno rappresentato i luoghi dell’abitare ma con uno sguardo indagatore che scava nelle profondità della memoria, per svelare la natura intima di una città o di un territorio. Un carnet di viaggio che diventa letteratura narrante e itinerante. Dipinti, acquerelli, poesie, romanzi, atlanti e tanto altro. Un potenziale parco letterario a cielo aperto. Mentre chi abita guarda con indifferenza e superficialità. Magari non tutti ma sicuramente la maggioranza. Non è una vergogna ma c’è da riflettere. Dobbiamo prenderne atto: gli “altri” vedono – dall’esterno – cose a noi diventate invisibili.
Oggi più che mai è necessario ri-costruire l’identità dei luoghi. Scavare nella storia per svelare, non solo l’oggetto monumentale o naturalistico ma la rete che collega tali oggetti tra di loro. Non serve solo “monumentalizzare” – isolando una risorsa – serve costruire la costellazione tra le infinite risorse per creare una “banca della memoria” (cit. Nino Tomasello) interconnessa, dinamica e globale; utile per rilanciare nuove ricerche e nuovi scenari.

Una città non è mai un monumento isolato, ma parte di una rete più complessa di città che rappresentano modelli relazionali sul piano politico, commerciale e della sacralità. Questo assioma determina un diverso modo di leggere i paesaggi e la loro storia. Determina un cambio di visuale e rimette in discussione le conclusioni storiche fin qui determinate, proponendo di fatto nuovi campi esplorativi della ricerca, nuovi ambiti, nuove prospettive. A patto che siamo disposti a riformulare il nostro modo di leggere il paesaggio attraverso la logica delle costellazioni.
Siamo così tanto abituati a vedere l’Etna che non cogliamo il valore dei luoghi da dove la vediamo. La bellezza non sta solo in ciò che vediamo ma anche nel luogo da dove vediamo. Sembra un concetto scontato ma la consapevolezza di ciò determina e produce una rivoluzione.

La cultura digitale del nostro tempo ha il compito di semplificare e innovare questi processi, attraverso l’uso di strumenti informatici che possono aiutare a catalogare, sistematizzare, analizzare, comparare, confrontare sintetizzare ed elaborare con risultati esponenziali. Oggi siamo nelle condizioni di disporre di strumenti della ricerca avanzati che ci permettono di uscire dal dubbio con maggiore facilità. Cartografie, analisi di laboratorio, diagnostica non distruttiva, realtà aumentata, strumenti di lettura del territorio più avanzati, sono le risorse di cui disponiamo e che dobbiamo usare per ri-costruire l’identità di un luogo. In questo senso lo strumento dell’Ecomuseo (esistente dagli anni ’70) è funzionale a raggiungere tale obiettivo a condizione che sviluppi tutte le sue potenzialità e non sia solo una sigla di moda. A condizione che sia lo strumento per costruire costellazioni flessibili e aderenti. E che non faccia la fine di slogan come “centro storico” o “paesaggio”, con il tempo anestetizzate dall’indifferenza di molti. L’Ecomuseo non è una bandiera ma uno strumento di ricerca per ri-costruire identità perdute.

 

Foto di copertina Giuseppe Mirenda.

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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