“Io vorrei spiegare davvero all’opinione pubblica perché la Lombardia è stata travolta da uno tsunami di casi di Covid-19”.
Ad analizzare il caso lombardo e quello veneto è il virologo Fabrizio Pregliasco, ricercatore dell’Università Statale di Milano e direttore sanitario dell’ospedale Galeazzi. “Si sta diffondendo un po’ l’idea che il Veneto abbia gestito meglio l’epidemia (poco più di 10 mila casi e 500 decessi).
Io – dice il virologo al ‘Corriere della Sera’ – non voglio sminuire il lavoro prezioso dei colleghi veneti, ma bisogna capire che la situazione non è paragonabile”. Il problema “è che lì c’è stato un focolaio, qui un incendio”.
Qual è la differenza tra Lombardia e Veneto? “Il 25 febbraio, a ridosso del ‘Paziente Uno’ di Codogno, la Lombardia ha 231 casi; il Veneto 42. Da quel momento in avanti la crescita è esponenziale: il 3 marzo i lombardi positivi sono 1.346, i veneti 297”. Viene da pensare: il Veneto fa più test e traccia meglio i contatti stretti per bloccarli a casa. “È una falsità. Lo dicono i numeri: il 24 febbraio la Lombardia esegue 3.689 tamponi contro i 2.200 del Veneto; poi 4.658 contro 3.780; poi ancora 5.829 contro 4.900, e via dicendo.
I numeri si riferiscono ai primi giorni. Fino al 26 febbraio. In seguito in Veneto sono stati eseguiti 2.165 test su 100 mila abitanti, in Lombardia 1.139.
Una volta che il virus si espande su larga scala fare a tutti il tampone, oltre che impossibile per la quantità di esami che andrebbero svolti, è inutile. Il test – avverte Pregliasco – dice solo se in un determinato momento sei positivo, non se lo diventi dopo un giorno. Quando il contagio è ormai diffuso — e lo è per l’ormai noto R0 — l’unica arma per bloccare la diffusione è l’isolamento sociale.
“Calcolare oggi il tasso di mortalità non ha senso – afferma Pregliasco – perché è rapportato al numero di tamponi eseguiti che sottostima, fino a dieci volte, il numero reale di malati”.