di Ezio Costanzo
Le ristrettezze a cui tutti siamo sottoposti in questi giorni fanno dire a molti che siamo in tempo di guerra.
Spesso abbiamo sentito anche tanti giovani affermare ciò, malgrado la guerra non l’abbiano mai vissuta (per fortuna) e i loro riferimenti sono solo i libri di scuola. Nessun anziano, invece, che la guerra l’ha provata, ha affermato che le ristrettezze a cui siamo sottoposti oggi sono simili a quelle del tempo in cui la guerra è stata la reale compagna della vita della gente, della popolazione del mondo.
In Sicilia, la Seconda guerra mondiale è il conflitto che ancora oggi riappare nei pensieri di tanti anziani (allora bambini) che con i loro racconti ci riportano alla tragedia vissuta per anni. E così, nella loro narrazione prendono forma le lunghe giornate trascorse dentro putridi rifugi antiaereo, i sibili delle bombe che dall’alto arrivavano senza lasciare scampo, le esplosioni che distruggevano le abitazioni e laceravano l’anima, i morti ammassati per le strade. Le case non erano il rifugio sicuro in quei giorni e le famiglie fuggivano nelle campagne. Le sciare attorno all’Etna diventarono madri benevoli per migliaia di donne, vecchie e bambini che nelle grotte, nelle spelonche e negli avvallamenti che la lava aveva lasciato nel sottosuolo trovarono rifugio, trasformandoli e attrezzandoli in ricoveri.
Nei paesi e nelle città furono ricavati altri ripari, scavando nella roccia.
A Catania, uno dei più grandi rifugi era quello che iniziava nella grotta Magna vicino alla chiesa dei Cappuccini nuovi e che venne unito al ricovero di via Daniele. Era una lunghissima spelonca, con delle uscite aperte in via Antico Corso e via Plebiscito. Lo spessore della pietra lavica, che in alcuni punti arrivava anche a sette metri, garantiva l’incolumità anche dallo scoppio di bombe di grosso calibro. Nella primavera del 1943, con l’intensificarsi dei bombardamenti a tappeto, moltissima gente, di propria iniziativa, scandagliò il sottosuolo catanese alla ricerca di soluzione che permettessero loro la salvezza dalle bombe. Anche i piccoli anfratti, cave e gallerie ferroviarie divennero rifugio perenne per una moltitudine di persone, che vivrà nelle viscere della terra fino a quando le truppe anglo-americane non entreranno vittoriose a Catania e nei paesi siciliani.
Il tempo di guerra era segnato dall’oscuramento delle città, dalla penuria di molti generi alimentari, dal rincaro dei prezzi, dalla borsa nera. Era il tempo della fame.
Tutto era razionato e le esigenze dell’esercito diventarono una priorità. La tessera annonaria (detta anche “tessere della fame”) divenne l’unico elemento legittimo per procacciarsi il cibo, regolandone la quantità giornaliera.
Il razionamento differiva in base alle fasce d’età e le tessere avevano un colore diverso: verde per i bambini fino a otto anni, azzurro dai nove ai diciotto anni e grigio per gli adulti. Il negoziante staccava il cedolino di prenotazione apponendo la propria firma e poi si potevano ritirare i prodotti prenotati. Le file erano lunghissimi e l’attesa stancante. A fare la fila c’erano tutti, uomini, donne, vecchi e bambini.
Fu disposto per legge il divieto di vendita del caffè e la produzione del pane fu limitata, prodotto con farina mista a crusca di mais o altro. Si diffuse l’uso di surrogati, come le farine d’orzo e di lenticchie. Furono imposti divieti agli impieghi voluttuari e limitazioni al consumo di zucchero, burro e grassi. Alla fine del 1940 pesanti restrizioni alimentari colpirono gli italiani. Furono sottoposti a razionamento i grassi: 300 grammi di burro o lardo o strutto per persona al mese. Venne posto il divieto di vendere carne e di servire pietanze a base di carne nei ristoranti.
L’alimentazione delle famiglie italiane variava rispetto alle località e alla vita in città o in campagna.
In campagna si viveva un po’ meglio per la possibilità di coltivare ortaggi e allevare animali. La carne si mangiava raramente e si consumavano molti legumi e patate. Al tempo di guerra l’alimentazione di un italiano adulto prevedeva circa 200 grammi di pane al giorno, 2 chili di pasta al mese, poco più di 1 chilo e mezzo di riso al mese, 800 grammi di patate ogni quindici giorni, 80 grammi di carne bovina e 60 grammi di salumi a settimana, 1 uovo ogni due settimane, 500 grammi di olio al mese, spesso sostituito da strutto o lardo, mezzo chilo di zucchero al mese. Il pepe e le spezie erano introvabili. L’apporto calorico era di un migliaio di chilocalorie al giorno. Lo slogan del regime fascista era: “Se mangi troppo derubi la patria”.
Molti prodotti erano comunque introvabili e venduti al mercato nero. Produttori e commercianti nascondevano la merce per venderla illegalmente a un prezzo maggiore, alcune volte anche il quadruplo. Nulla, durante la guerra, poteva essere sprecato. Anche i granelli di cibo divennero sostanza. Le donne si inventano ricette con gli scarti del alimenti, come le bucce della frutta e i gambi delle verdure. Con le ossa dei polli si faceva il sapone. I bambini non avevano giocattoli, né merendine e né vestiti decenti. Quando la guerra finì si pensò ad un ritorno alla normalità ma il razionamento e le carte annonarie restarono fino al 1949. A ricordare gli anni della miseria, della grande tragedia degli italiani.