L’epidemia mediatica del Coronavirus e la zona rossa della stupidità collettiva

Il Paese Italia è sotto attacco. Un virus mediatico si diffonde velocemente e in profondità penetrando in ogni strato della società, invadendo persino le istituzioni. Le borse crollano, le aziende chiudono, le attività produttive si fermano. Un contagio che viaggia nell’etere, rimbalzato dai telegiornali, dai notiziari e da un palinsesto mediatico che assorbe l’intera giornata. Speciali, interviste, ultime notizie. Zona rossa, quarantena, tamponi, negatività. Ancora un morto, ancora un contagio. Tutti alla ricerca del paziente zero. Le borse continuano a crollare, bruciati più di quindici miliardi (al giorno), forse di più. Le nuove guerre sono quelle mediatiche e della gestione delle informazioni. Anche un’influenza può tanto.

Tutta colpa della Cina, dei pipistrelli, dei topi, dei cinesi. L’amuchina viene quasi quotata in borsa, le mascherine scomparse dagli scaffali dei supermercati. E’ il panico. Il governo continua a tranquillizzare tutti ma nel frattempo chiude scuole, città, uffici. Serve circoscrivere il contagio. E nel mondo, il virus sembra avercela sempre con la Cina, l’Iran e l’Italia. Che strana cosa! Un virus che ha una coscienza geopolitica.
Le aziende delocalizzate prefigurano la possibilità di ritornare nei paesi di origine: Europa, Usa, Canada, Regno Unito e Australia. Il prezzo che stanno pagando per aver investito in Cina è altissimo; il basso costo del lavoro, che aveva attirato tutti, proprio tutti, sta presentando il conto. I giornalisti ci propongono statistiche, diagrammi, mappe e ovunque emerge che l’Italia è terza per diffusione del virus nel mondo. Tutti a caccia del paziente zero, del paziente uno, e l’ultimo della serie: Milano, Roma, Veneto, Toscana, Sicilia.

Il sud dell’Italia riflette. E se fosse scoppiato tutto nel meridione d’Italia? Mamma mia. Possiamo immaginare i titoli dei giornali. Vittorio Feltri e Alessandro Sallusti quasi imbarazzati. Il Governatore del Veneto si arrampica sulla questione “topi vivi”. Quello della Lombardia mette la mascherina. Le Marche dichiarano l’indipendenza dall’Italia.
Gli scienziati spiegano le possibili implicazioni, le contromisure, rassicurano ma non basta. Abbiamo bisogno di un’epidemia nazionale. Nessuno ci può privare di quel terzo posto. Certo dopo Cina e Iran. Che strano, proprio Cina e Iran, due nazioni in cattivi rapporti politici commerciali con l’America di Donald Trump: ora mi direte che sono complottista. Molte nazioni hanno un diverso rapporto con l’influenza, più in generale con le malattie. La Russia: nessun contagio; e ti pareva se Vladimir Putin faceva entrare il virus in quel Paese? Francia, Germania e Regno Unito, qualcosa, ma poco, non hanno avuto il tempo di fare i tamponi a tutti e sono impegnati a bloccare i confini con l’Italia, Furbi loro.
Serve dell’ironia per leggere questo momento, sempre nel rispetto di chi sta male e di chi perde la vita (che secondo gli esperti è coerente alle statistiche annuali, sugli effetti collaterali dell’influenza ordinaria). Colpisce la velocità con cui la Cina costruisce un ospedale in poche settimane; facciamoli venire in Italia. Colpisce come alcuni esponenti politici italiani, approfittino di questa emergenza, per lanciare frecciate all’avversario politico. Colpisce come la stampa possa essere così determinante nel fare esplodere un “caso Italia” a livello internazionale, mettendo da parte il resto del mondo; e qui Piero Sansonetti ha spiegato meglio questa innata vocazione italiana.

Poi c’è l’amore, i rapporti umani, filtrati dal virus. Sui social un’infinità di spot che ironizzano e banalizzano, per scherzare e per denunciare le anomalie antropologiche del sistema. Come lo svuotamento dei supermercati, l’esaurimento delle mascherine e l’elevazione dell’amuchina, a unico prodotto utile per sconfiggere il virus (bastasse solo questo, eravamo a cavallo). Tra Palermo e Catania la solita storia: amuchina o amuchino? I consigli della nonna diventano virali sul web. Bruno Vespa – a Porta a Porta – lascia l’argomento delle diete e realizza un “dopo elezioni”, solo sul corona virus. La birra Corona, perde più di cento milioni di euro per danni d’immagine e molti centri commerciali cinesi, chiudono e non si capisce perché. Ovunque scorre il decalogo per contrastare l’epidemia: laviamoci le mani, prima di tutto. Poi c’è chi vuole chiudere i porti, gli aeroporti, le scuole. C’è chi ritiene non giusto il fatto che solo le scuole del nord siano chiuse e parte il solito disco sulla questione meridionale. A Napoli e a Catania (Vesuvio e Etna) si tira un sospiro di sollievo: nessun lombardo può dire forza Etna e forza Vesuvio. Per uno scherzo del destino circola la battuta: “aiutiamo gli uomini del nord nella loro terra”, che solo a pensarlo vien da ridere se consideriamo che era il tormentone dei nordisti fino a ieri.

Ma non c’è molto da ridere. Il distretto produttivo del nord-est è messo in ginocchio. Il sistema Paese Italia compromesso, prima di tutto nel comparto più importante, il turismo. Un Paese che risulta fragile, rispetto al potere della comunicazione, più che per il virus. Serve reagire, ma a cosa? Alla malattia sanitaria o alla stupidità collettiva?
L’immagine del “bacio” di Francesco Hayez, nella nuova versione è sintomatica di una cultura – quella italiana – che ironizza, reagisce, ma nello stesso tempo costruisce complicazioni a se stessa; perdendosi continuamente in un loop mediatico. L’amore al tempo del coronavirus (parafrasando, Gabriel Garcia Marquez) potrebbe modificare la nostra stessa percezione del significato di collettività. Diffidenza, mascherine, recinti, oppure una maggiore consapevolezza che solo una solidarietà diffusa, il senso dello stato e di appartenenza alla specie umana e la responsabilità dell’essere parte di una collettività, può salvare l’intera comunità che abita il pianeta.
“La scienza è l’antidoto, e chiede unità non governissimi (Sergio Mattarella)”. Ora l’emergenza è economica; serve restare uniti, responsabilmente, eticamente; sapendo che la crisi non è regionale o di distretto ma sistemica e nazionale (evitando le speculazioni strumentali sotto tutti i punti di vista).

Nella foto interna: una posa ironica dell’autore dell’articolo Francesco Finocchiaro.

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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