Le città contengono sempre più edifici dismessi, abbandonati, inadeguati per varie ragioni. Una specie di atlante di “ex” qualcosa. Edifici mai completati che hanno perso la loro ragione di esistere. Sono comunque un patrimonio immobiliare disponibile alla pratica del riuso. Tra questi possiamo evidenziare quelli che hanno un valore aggiunto come gli edifici storici o anche le aree storiche. Cosa farne? Come riconvertirli in risorse attive?
La prima riflessione da fare è individuarli, verificarne la consistenza, la potenzialità ma soprattutto renderli funzionali per creare una rete di opportunità per la città. La loro stessa genesi ha seguito questa logica; anche loro, sono stati realizzati come parte di una rete urbana che ha generato sistemi interconnessi: nobiliare, religioso, commerciale, militare, ecc.
Oggi si offrono alla modernità con nuove modalità d’uso che devono comunque tener conto della loro liturgia intrinseca. Una relazione tra luogo e uso che merita attenzione. Diventerebbe stridente collocare un’officina in una ex chiesa; una discoteca in un vecchio monastero; un parcheggio in cemento armato, in un campo agricolo, disegnato da antiche tessiture idriche; una serra sopra un’area archeologica. Questioni di liturgia, questioni di stile, questioni di politiche culturali. Non entriamo nel merito – almeno oggi – di cosa faremo dei centri commerciali quando finiranno la loro vita funzionale, ma di cosa vogliamo fare, dei contenitori culturali: manufatti e aree che meriterebbero un’idea forte che, oltre a preservarne l’esistenza, li renda produttivi e quindi “abitati”. Perché solo l’uso (congruente) determina il mantenimento in vita del manufatto, la sua continua manutenzione e quindi in ultima analisi il raggiungimento dei due obiettivi principali: restituire alle future generazioni la storia dei luoghi oltre a renderli produttivi e utili per la nostra vita. Non è cosa di poco conto. Ma ci vuole sempre una visione politica, una visione complessiva, un progetto di città.
Recentemente, sempre a Paternò, è emerso il caso dell’ex ospedale (monastero di Santa Maria della valle di Josaphafat, per essere più precisi) e dell’albergo Sicilia. Il primo ha fatto emergere la discrepanza tra il luogo e l’uso (anche se temporaneo) proposto; il secondo impone una riflessione sul suo recupero, in chiave imprenditoriale e come opportunità per generare una nuova polarità urbana. Ci sarebbero anche altri esempi ma non è questa la sede per un approfondimento: basta pensare alle condutture idriche storiche che stanno sotto la città; alle innumerevoli chiese abbandonate; al patrimonio agricolo, fatto di terrazzamenti, rasole e tessiture idriche; ai vecchi edifici industriali, urbani e rurali; alle piazze, alle reti storiche (come la via Francigena-Fabaria); e agli stessi monumenti dell’acropoli in parte lasciati al loro triste destino.
Ma torniamo a noi. Proporre una festa da ballo – anche se in beneficenza – impone comunque una riflessione critica. Il principio è che esiste una relazione tra il contenitore e le liturgie possibili in esso. Meglio, nel caso specifico, proporre un concerto di musica classica? Un ballo storico in costume? Una rassegna di cinema, di poesie, di arti visive o plastiche? Non dobbiamo confondere il concetto di modernità d’uso – che difendo e rispetto – con il “famolo strano”. Persino la Tate Gallery di Londra, organizza eventi dentro le sue strutture, ma non sono feste con dj e open bar dopo mezzanotte.
Credo nell’ingenuità degli organizzatori e nella loro buona fede; forse gli adulti – a tutti i livelli – avrebbero il dovere di spiegare, di educare, di formare questi studenti a forme di riuso più congruenti alla sacralità dei luoghi per evitare feste di laurea e compleanni che andrebbero fatti altrove. Ma forse manca sempre quella visione d’insieme che genera equivoci e ambiguità.
Sull’albergo Sicilia il discorso è più complesso e una recente tesi di laurea di Francesco Castelli – Facoltà di Architettura Kore di Enna, relatore prof. Maurizio Oddo – aveva già posto qualche spunto di riflessione utile ad argomentare.
In questo caso il tema del riuso – recupero della struttura alberghiera – che ovviamente ha una vocazione ricettiva, non può prescindere da un disegno urbano complessivo dell’area che è strategica per avviare un percorso di rigenerazione urbana. Le aree adiacenti – la villa comunale e le campagne urbane – la presenza della stazione della metropolitana, l’ingresso di Paternò dalla superstrada, la presenza di condotti idrici storici, la scuola e il tema dei perimetri-recinti, impongono un disegno ad hoc che Francesco Castelli propone come esplorazione progettuale.
Forse oltre all’acquisto del manufatto, la collettività dovrebbe – insieme al nuovo proprietario – interessarsi a ridefinire l’intorno all’albergo Sicilia per rendere questo spazio una nuova polarità urbana.
Appare evidente, che “riuso” è un termine complesso che impone domande, riflessioni, genera tematismi progettuali e scelte politiche. Politiche culturali, urbane, sociali ed economiche. Più volte ho citato l’approfondimento di qualche anno fa di Stefania Marletta: un lavoro (era una borsa di studio dell’Agenzia Nazionale Giovani) sulla rete delle “comunità giovanili” e sul riuso dei contenitori puntuali e areali delle città. Forse bisognerebbe ripartire da quella esperienza per far sedere attorno ad un tavolo comune: l’amministrazione, le comunità giovanili e associative (laiche e confessionali), gli imprenditori, i commercianti e le scuole. Non mi stancherò mai di ripeterlo: serve un piano per non navigare a vista, senza timone e senza mappa. Il rischio è di schiantarsi contro gli scogli. Ma serve conoscere tutto il patrimonio disponibile e indisponibile di questa comunità.