Campane, l’intimità della festa: suonano ancora nei paesi dove il futuro deve arrivare

Ci sono feste – quelle che si fanno ancora nelle piccole città dove il futuro è sempre in ritardo – che hanno un profumo antico, un sapore profondo, una luce calda. Feste che la gente sente e vive intensamente. Momenti di sacralità, di spiritualità, di devozione verso una santa, un accadimento o un’eroina della cristianità. Anche se, forse, questa santa ha radici più antiche, più profonde, arcaiche e misteriose. Non importa: quello che conta è il senso della festa, la capacità di fare comunità, l’eroismo, il sacrificio, la tensione del popolo verso una città più santa, liberata dal male.

Una festa di paese non è solo la processione, la messa solenne, i fuochi d’artificio, le luminarie, il vestito buono e il pranzo tutti insieme. Una festa di paese è qualcosa di più, contiene altro Nasconde liturgie segrete che uomini e donne celebrano silenziosamente. Una festa di paese è anche musica, e non solo per la banda lungo le strade ma anche per il suono delle sue campane, che scandiscono i tempi della solennità, l’inizio e la fine, la sua metamorfosi.

Ma chi suona le campane, chi sono gli uomini e le donne che rompono il silenzio dell’alba e della notte. Siamo pronti a immaginare un campanaro, che come “il Quasimodo di Notre Dame de Paris”, vive nella torre, solo per musicare, nascosto dalla vista di tutti e sacrificato al tempio di Dio. Ma sappiano che la modernità ha elettrificato tutto, ha reso questi antichi lavori – di sentinelle della comunità – ormai obsoleti e inutili. La modernità ha reso tutto impersonale e automatico. Nessun campanaro, nessuna corda da tirare, nessuna campana da suonare, ci pensa ogni volta un dispositivo programmato a tempo e quella figura buffa, che scivolava tra le antiche pietre, sulle scale, fin sopra il campanile, non esiste più.

Ma le feste di paese conservano, tra le pieghe, alcune sorprese. Conservano tradizioni antiche, coltivate nel tempo e mai sopite. Apparentemente stuccose e ridondanti ma, in realtà, cariche di umanità e spiritualità. In quella città che festeggia Santa Barbara, vicino al fiume Simeto e sotto il vulcano dell’Etna; dalle antiche origini e con un passato ricco di tesori, conosciuta oggi come Paternò, ogni mattina – quindici giorni prima della festa della sua patrona – si celebra un rito straordinario: la suonata delle campane all’alba. Semplice, breve, musicale.

All’alba, si radunano uomini e donne, bambini e anziani. Silenziosamente s’intrufolano tra le pietre dell’antica chiesa ottagonale, conquistano il campanile, passando per una scala di morbida pietra. Stretta, buia, con bucature che appaiono all’improvviso. Una scala che gira su sé stessa fino a farti perdere la misura, l’orientamento. Unico conforto la voce di chi ti precede e le mani che si sovrappongono lungo la salita. Poi all’improvviso la casa delle campane, quel luogo sempre immaginato e visto da lontano; quel luogo che tutti immaginano diverso ma che nasconde visuali, scenari, e avvicina l’uomo a Dio. Sobrio, frugale, essenziale. Una vedetta verso la città, verso il sole che albeggia, verso le cupole, i tetti, le torri. Un osservatorio astronomico che punta verso ogni direzione utile per capire chi siamo e verso dove andiamo.

Dentro questo spazio metafisico, che ci colloca in cima alla chiesa, nel punto in cui tutto è possibile, le campane sono le vere protagoniste. Sono grandi, piccole, sorelle. Sono immense, minute, musicali. Per materia e per forma sono emanazione del sacro, allegoria del divino, sentinelle e conforto di una comunità. È proprio questo il punto, sono esse stesse allegoria della comunità, strumenti preziosi per ricordare, celebrare, ringraziare e ammonire. Sono la voce del popolo di Dio; nascoste e umili, senza orpelli e clamori. Vestite di metallo e segnate per nome.
Dentro il campanile si sono già raccolti solennemente – come fratelli e sorelle – un gruppo di devoti, che non apparirà mai agli occhi della festa, non sfilerà per le vie e non indosserà vesti preziose. Sono prevalentemente piccoli uomini, cuccioli d’uomo che hanno deciso di contribuire a dare suono alle campane. Un maestro campanaro, esperto e con la passione dentro, è il direttore dell’orchestra, colui che impartisce gli ordini, i tempi e attribuisce le campane ai piccoli campanari. Paziente, esperto, si muove tra le corde e gli uomini che tirano le corde. Gesticola, accenna, impartisce gli ordini con gli occhi e con le mani.

Dentro il campanile, tutti si abbracciano, si parlano, si confidano, si baciano. Dentro il campanile, tutti sono uguali, tutti sono braccia per le corde, a turno, tutti riescono a suonare le campane. Dentro il campanile si ritrova la comunità, si condivide la salita, le vedute, il futuro. Si pensa a dopo, a chi andrà a lavorare, a chi tornerà a casa, a chi condividerà un piccolo pasto. Dentro il campanile tutto è diverso, dilatato. Viene voglia di restarci a fare una festa, viene voglia di sorridere e di raccontare una storia, mentre il sole appare dietro le colline. Piano piano la luce invade quella porzione nascosta del tempio, gli sguardi si fanno più intensi, le mani cercano altre mani: il suono delle campane ha già invaso la città. Ritmo, cadenza, ridondanza. Ciò che colpisce è l’umanità di questa liturgia. La capacità di creare il vero senso della festa e della comunità che condivide la festa. Un’emozione straordinaria, quasi il desiderio di appartenere a questo rito.

Ma il regalo più intenso è la visione della città, che appare nuova, la visione dall’alto, per scorci, come un album di fotografie. Il regalo più intenso sono gli sguardi di chi è presente accanto a te, l’entusiasmo, la passione, il sentimento e il sentirsi parte di qualcosa. La musica delle campane non è il frutto di un singolo ma il lavoro di una squadra che racconta alla città una storia. Una squadra che ha deciso di regalare la propria alba al servizio di una festa di paese; di quei paesi, in cui il futuro qualche volta ritarda ad arrivare e che le campane non smettono mai di annunciare.

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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