di Gabriella Lupo
Nella storia di Adrano la giornata del 2 agosto 1899 è una data importante: in quella occasione il grosso centro agricolo etneo era festante per la cerimonia della posa della prima pietra del campanile che avrebbe sovrastato la chiesa Madre, nella centralissima piazza del paese.
Dietro questo evento si erano intrecciate le volontà di molti soggetti. Prima fra tutti quella del prevosto dell’epoca, padre Salvatore Petronio Russo. Egli, facendosi portavoce dei desideri della comunità adranita, fece sì che venisse redatto un bel progetto e che fosse adeguatamente sostenuto dai fondi necessari. Il religioso si avvalse, per la progettazione, del genio dell’architetto Carlo Sada (progettista del Teatro Bellini di Catania), il quale disegnò un vestibolo antistante la chiesa dal quale si sarebbe innalzato un campanile quasi ad accarezzare le nuvole, volto ad assicurare uno stretto collegamento fra il cielo eterno e puro e la terra caduca e peccatrice.
Per l’aspetto contingente, invece, il prevosto trovò valido aiuto nel sottosegretario Paolo Vagliasindi che si adoperò affinché il Fondo Culto versasse dei contributi che si sarebbero affiancati a quelli già stanziati dal Comune.
Ma quella data così importante è oggi ignota agli adraniti perché di quell’opera mai si vide la fine e mai venne il giorno dell’inaugurazione del campanile che ancora fu oggetto di controversie amministrative e non. Infatti, interrotta l’opera pochi anni dopo il suo inizio per mancanza di fondi, venne ripresa più tardi quando nel primo dopoguerra, ed esattamente nel 1919, il consiglio comunale adottò una delibera con la quale, accogliendo il desiderio dei cittadini a che il campanile venisse ultimato, si incaricò il predetto architetto Sada affinché facesse una perizia dei lavori occorrenti per poter stanziare una nuova cifra adeguata al completamento dell’opera.
La perizia ebbe luogo ma nessun atto ufficiale può a tutt’oggi testimoniarci quali esiti diede.
Gli avvenimenti della seconda guerra mondiale posero il campanile in ombra finché nel dopoguerra la questione venne rispolverata.
Questa volta ad opera del prevosto padre Ciaramidaro che si rivolse al deputato regionale Ing. Giuseppe Montalto, adranita, perché intervenisse sul governo per un finanziamento della Regione.
Sembrava finalmente giunto il giorno in cui Adrano avrebbe visto il completamento di quell’opera che appariva ormai inattuabile, ma accaddero fatti strani, tanto da far temere quel campanile agli adraniti.
Entro un anno dalla ripresa dei lavori morirono accidentalmente tutti coloro che avevano atteso al completamento del campanile: il prevosto, l’on. Montalto e il capomastro. Da quel momento disfunzioni amministrative e superstizioni si sono fuse inestricabilmente nei discorsi della gente: s’iniziò a pensare che su quell’opera “sacra” gravasse una maledizione che conduceva alla morte chi volesse completarla.
Conseguenza primaria della diceria fu il rifiuto tacito e diffuso da parte di amministratori e operai di volersene occupare, un sottile convincimento generale che suggeriva di non sfidare la sorte.
Così gli anni trascorsero all’ombra della torre maledetta che ad ogni buon vedere è un elemento di disturbo architettonico della piazza Umberto.
Ciò che restava era uno scheletro di cemento armato che nell’economia della piazza, dove si affacciano il Castello Normanno, la settecentesca via Roma, la villa, il palazzo dei Ciancio, come ebbe a dire Cesare Brandi, “avvelena tutto, è come un cattivo odore intollerabile che accompagni un piatto saporito, è un escremento delle Arpìe che fa fuggire i convitati”.
L’interesse sembrò risvegliarsi di colpo nel 1987 quando l’allora prevosto, il reverendo Branchina, ricevette una lettera da parte della Soprintendenza dei beni culturali e ambientali con la quale si rendeva nota l’approvazione di un progetto di demolizione della struttura in cemento armato con relativo stanziamento di fondi, ammontanti alla cifra di centosessanta milioni. La repentina opposizione del prevosto si manifestò in una lettera inviata alla Soprintendenza, all’assessorato regionale Turismo, all’arcivescovo di Catania e al sindaco di Adrano. Il religioso spiegava i motivi del suo dissenso alla demolizione, basato sulla mancata consultazione circa il progetto, sulla convinzione che l’esigenza avvertita dalla Soprintendenza in rapporto alle necessità estetiche poteva essere risolta con la prosecuzione dei lavori originali anziché con la demolizione, sulla motivazione di natura superstiziosa per la demolizione; ed infine sulla necessità di una garanzia legale a voler ricostruire una volta demolito.
La questione assumeva una nuova veste: si parlava di demolizione.
Tutti ormai ad Adrano si erano arresi all’evidenza che il progetto del Sada non si sarebbe mai realizzato ma, mentre una parte del paese voleva che finalmente il “missile” venisse buttato giù, un’altra desiderava vederlo completato anche se non conformemente al progetto iniziale.
Iniziò a profilarsi un lieve timore: le “forze oscure” che custodivano l’obbrobrio non volevano lo si toccasse. In ogni caso il Comune si era accordato e la demolizione ci sarebbe stata a dispetto di dicerie e opposizioni.
Improvvisamente, però, un nuovo colpo di scena: la competente Soprintendenza bloccò l’appalto per la demolizione adducendo motivazioni economiche.
Soltanto grazie all’intervento congiunto dell’amministrazione comunale di Adrano, della Soprintendenza e della Curia, nel 1997 quella indecenza architettonica venne demolita: la chiesa fu riportata come era un tempo, lasciando il basamento con le dieci colonne, costruito all’inizio del XX secolo.