L’imperfezione, nella cultura wabi-sabi, è un valore. Un elemento a cui dobbiamo abituarci, perché la ricerca “esasperata” della perfezione è spesso frustrante e fuorviante. L’imperfezione negli oggetti, nei rapporti umani, nelle cose è parte integrande dell’idea di bellezza. La nostra società – oggi più che mai – rifiuta il difetto, l’anomalia, la difformità. Esalta lo standard, la serialità, la performance costante. Non possiamo sbagliare e nessuno vuole sbagliare. Vogliamo le cosa senza difetto, praticamente perfette. Ogni cosa deve essere uguale all’altra: un colore, una superficie, una forma, un carattere, un processo. Se qualcosa contiene una piccola difformità, questa viene espulsa dal sistema, scartata, emarginata e diventa rifiuto. Avviene per le cose, avviene per gli uomini, avviene per le idee, persino per la natura, se pensiamo all’esigenza di uniformità nella produzione agricola: arance tutte della stessa forma e dello stesso colore, sui banchi dei supermercati, in bella vista. Che tristezza. Abbiamo costruito un’estetica dell’uniforme per combattere il difforme, la conseguenza è la paura del pensiero divergente e della diversità. La non accettazione della transitorietà (tutto e per sempre), della caducità (sempre giovani), della difformità (tutti uguali a un modello).
Tutti primi, tutti bravi, tutti rossi, tutti alti, tutti magri, tutti ricchi, tutti potenti, tutti uguali. Chi non appartiene a questo club è uno scarto produttivo. Basta solo un piccolo difetto. I più fortunati si sentiranno dire: tu sei molto bravo ma anche tu hai un difetto. E io rispondo: “Grazie a Dio ho almeno un difetto, pensa se fossi uguale a te! Una tragedia”. Forse dovremmo cambiare vocabolo. Invece di dire “difetto” dovremmo parlare di diversità. Siamo diversi e per questo rappresentiamo una ricchezza per la società, per la natura, per il senso del gusto. Riccardo Falcinelli nel suo saggio “Cromorama” – esplorazione sulla storia e il significato del colore – ci evidenzia come la bellezza di un colore, steso su una superficie da Giotto, da Masaccio, da Antonello da Messina e cosi via, non sta nella capacità di uniformità del tono cromatico ma nella profondità e nella presenza di infinite sfumature. Ormai siamo abituati a vedere le superfici uniformemente colorate, e dove rileviamo una differenza gridiamo al “difetto” e subito a rimediare.
La nostra società deve ritrovare il senso della teologia dell’imperfetto. Come condizione umana, che tende al perfetto ma non ha l’arroganza di raggiungerlo. Tendere è una cosa, pretendere di averlo raggiunto, un’altra. Questo significa rimettere al centro la possibilità di sbagliare, di commettere un errore e di correggere. Questo significa ripensare alle regole d’ingaggio, nei rapporti umani. Ripensare al rapporto tra uomo e natura, considerare l’errore come parte di un processo evolutivo e non come un fallimento. L’errore non è la fine ma un punto di passaggio tra due condizioni. Forse rappresenta la nostra stessa natura umana che è anche natura. Spesso crediamo che una montagna, un fiume, il mare sono per sempre uguali. Sempre lì. Spesso crediamo che la loro bellezza (quella della natura e delle cose) sia riposta nell’immutata condizione. La bellezza, invece, sta nella trasformazione per successivi difetti.
C’è molta cinematografia che ci propone il pericolo dell’uniformità, specie quella di fantascienza. Dobbiamo coltivare la diversità, in tutti i campi. Difenderla, proteggerla e capirla. Dobbiamo trasformare. Quindi. il “difetto” in opportunità e come segno tangibile della presenza del “divino”.