Wabi-sabi, le meravigliose imperfezioni delle nostre vite 

La traduzione di questo termine – wabi-sabi – non è semplice. Complicato anche darne una spiegazione. Si potrebbe semplicemente dire che rappresenta il principio estetico della bellezza giapponese, come accettazione della transitorietà delle cose. L’Equivalente dei valori estetici nella Grecia classica per l’Occidente. Wabi significa solitudine della natura e Sabi significa freddo, ma la traduzione letterale ci dice poco. Wabi-sabi è un modo di vedere le cose, una visione. Se un oggetto esprime una serena malinconia e un ardore spirituale – dice Richard R. Powell – quell’oggetto è wabi-sabi. Nulla è finito, nulla è durevole, nulla è perfetto. Se volessimo approfondire la questione, basterebbe esplorare l’ampia letteratura disponibile a partire da “Wabi-sabi per artisti, designer, poeti e filosofi” di Leonard Koreno “Wabi Sabi. Trova la bellezza nell’imperfezione”di Oliver Luke Delorie.

A dire il vero, questa estetica – apparentemente così distante dalla nostra cultura – ha contaminato più volte le nostre produzioni artistiche, sin dall’Ottocento e quindi la nostra stessa cultura sociale. Gli scambi commerciali tra Olanda, Portogallo e Giappone – dopo secoli di isolamento – hanno portato in Europa un gusto per la natura, per l’essenziale, per la transitorietà che possiamo trovare nelle stampe di Utagawa Hiroshige(autore oggi celebrato in tutto il mondo). Un gusto estetico che ha influenzato le arti dell’Ottocento e gettato le basi per la modernità, le avanguardie e l’arte contemporanea. Una rivoluzione mite e silenziosa, in perfetto stile wabi-sabi. Molti degli oggetti che ci circondano, che fanno parte della nostra quotidianità, hanno una matrice wabi-sabi. Se qualcuno volesse entrare in questo mondo, magari piano piano, potrebbe godere della lettura di Matilde Asensie del suo ultimo romanzo, “Sakura”, che ci accompagna nell’intrigato rapporto tra cultura la giapponese e l’impressionismo europeo, sullo sfondo un giallo misterioso: la scomparsa di un quadro di Vincent van Gogh, “il ritratto del dott. Gachet”. Una lettura appassionante.

L’imperfezione, nella cultura wabi-sabi, è un valore. Un elemento a cui dobbiamo abituarci, perché la ricerca “esasperata” della perfezione è spesso frustrante e fuorviante. L’imperfezione negli oggetti, nei rapporti umani, nelle cose è parte integrande dell’idea di bellezza. La nostra società – oggi più che mai – rifiuta il difetto, l’anomalia, la difformità. Esalta lo standard, la serialità, la performance costante. Non possiamo sbagliare e nessuno vuole sbagliare. Vogliamo le cosa senza difetto, praticamente perfette. Ogni cosa deve essere uguale all’altra: un colore, una superficie, una forma, un carattere, un processo. Se qualcosa contiene una piccola difformità, questa viene espulsa dal sistema, scartata, emarginata e diventa rifiuto. Avviene per le cose, avviene per gli uomini, avviene per le idee, persino per la natura, se pensiamo all’esigenza di uniformità nella produzione agricola: arance tutte della stessa forma e dello stesso colore, sui banchi dei supermercati, in bella vista. Che tristezza. Abbiamo costruito un’estetica dell’uniforme per combattere il difforme, la conseguenza è la paura del pensiero divergente e della diversità. La non accettazione della transitorietà (tutto e per sempre), della caducità (sempre giovani), della difformità (tutti uguali a un modello).

Tutti primi, tutti bravi, tutti rossi, tutti alti, tutti magri, tutti ricchi, tutti potenti, tutti uguali. Chi non appartiene a questo club è uno scarto produttivo. Basta solo un piccolo difetto. I più fortunati si sentiranno dire: tu sei molto bravo ma anche tu hai un difetto. E io rispondo: “Grazie a Dio ho almeno un difetto, pensa se fossi uguale a te! Una tragedia”. Forse dovremmo cambiare vocabolo. Invece di dire “difetto” dovremmo parlare di diversità. Siamo diversi e per questo rappresentiamo una ricchezza per la società, per la natura, per il senso del gusto.                                                              Riccardo Falcinelli nel suo saggio “Cromorama” – esplorazione sulla storia e il significato del colore – ci evidenzia come la bellezza di un colore, steso su una superficie da Giotto, da Masaccio, da Antonello da Messina e cosi via, non sta nella capacità di uniformità del tono cromatico ma nella profondità e nella presenza di infinite sfumature. Ormai siamo abituati a vedere le superfici uniformemente colorate, e dove rileviamo una differenza gridiamo al “difetto” e subito a rimediare.

La nostra società deve ritrovare il senso della teologia dell’imperfetto. Come condizione umana, che tende al perfetto ma non ha l’arroganza di raggiungerlo. Tendere è una cosa, pretendere di averlo raggiunto, un’altra. Questo significa rimettere al centro la possibilità di sbagliare, di commettere un errore e di correggere. Questo significa ripensare alle regole d’ingaggio, nei rapporti umani. Ripensare al rapporto tra uomo e natura, considerare l’errore come parte di un processo evolutivo e non come un fallimento. L’errore non è la fine ma un punto di passaggio tra due condizioni. Forse rappresenta la nostra stessa natura umana che è anche natura. Spesso crediamo che una montagna, un fiume, il mare sono per sempre uguali. Sempre lì. Spesso crediamo che la loro bellezza (quella della natura e delle cose) sia riposta nell’immutata condizione. La bellezza, invece, sta nella trasformazione per successivi difetti.

C’è molta cinematografia che ci propone il pericolo dell’uniformità, specie quella di fantascienza. Dobbiamo coltivare la diversità, in tutti i campi. Difenderla, proteggerla e capirla. Dobbiamo trasformare. Quindi. il “difetto” in opportunità e come segno tangibile della presenza del “divino”.

Wabi-sabi è una traccia tangibile di questo modo di guardare e vivere il mondo che ci circonda. La consapevolezza che una serena malinconia e un ardore spirituale – toccando, guardando, odorando, gustando e sentendo – sono alla base della nostra felicità e per questo dobbiamo accettare il difetto come parte dell’universo visibile e invisibile. La cultura occidentale rende tutto questo più complicato perché separa le cose in dentro e fuori, giusto e sbagliato. Le cose si compenetrano costantemente diventando l’unità.

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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