Generazione over 65, invecchiano anche le città: tocca cercare gli angoli felici

In molti, studiano nuovi modelli di sviluppo e nelle diverse scale, dalla globale alla locale; in considerazione delle nuove tecnologie, dei nuovi mercati, e di come sta cambiando il rapporto tra uomo e natura. Basta seguire uno dei tanti approfondimenti che ci vengono proposti dalle testate giornalistiche. La parola più usata è “futuro”.

Economisti, antropologi, sociologi e, più in generale, diversi istituti di ricerca. Tutti impegnati a “pre” configurare il futuro. Perché?

Perché abbiamo voglia di capire, di prepararci, di anticipare; è nella natura dell’uomo. Ma non basta capire o sapere, è necessario agire di conseguenza, aggiustando, raddrizzando, riallineando tutto verso un modello che metta sempre al centro il rapporto ecologico tra l’uomo e la natura. Ci piace chiamarla umanità: quando questo non avviene, la nostra società tende all’alienazione e alla depressione.

Non possiamo non fare i conti – in tutto questo – con alcune variabili che riguardano il nostro microcosmo. Uno sguardo dritto verso il nostro ambiente vitale. La nostra città, che è parte di un più ampio sistema ma nello stesso tempo è uno dei motori propulsori della società. E per questo deve essere osservata con attenzione e da questa osservazione far derivare le opportune conseguenze.

Il dato su cui ci vogliamo concentrare è la composizione anagrafica delle nostre città del meridione d’Italia. Sono sempre più vecchie, con sempre meno giovani. Se da una parte si continua a pensare al futuro, seguendo modelli globali consolidati, dall’altra si deve fare i conti con le risorse umane disponibili.

L’Istat è spietata e ci spiega come scende il numero dei residenti nei piccoli centri e come – in percentuale – sale quella della popolazione anziana, non produttiva. In pratica si svuotano le città e rimangono solo i vecchi.

I giovani – diplomati e laureati – vanno verso l’Europa del nord. Ci vanno con un bagaglio di conoscenze e di energia, che metteranno a disposizione di quei Paesi che li accolgono. Al contrario il nostro territorio diventa sempre più arido e poco produttivo, in pratica un enorme centro per anziani, forse destinato a scomparire.

Ma quali sono le implicazioni pratiche di questo processo? Sarebbe utile invertire questa tendenza? I piccoli centri sono destinati a diventare aree abbandonate, occupate solo da centri per anziani? Perché è necessario investire per rigenerare questi luoghi? Sono tante le domande a cui avremmo voglia di rispondere o perlomeno tentare di descrivere un possibile scenario, ma proveremo almeno a tracciare una linea. Una cosa è certa, si assiste al processo di concentrazione verso le grandi città, verso i Paesi più competitivi, verso gli attrattori internazionali. Inevitabilmente le realtà urbane minori perdono di significato, non sono più un mercato appetibile e quindi non attraggono più investimenti, né pubblici né privati. La Politica avrebbe il compito di studiare una strategia o quanto meno prendere atto di questo processo e decidere presto cosa fare.

Ovviamente in questi contesti non cresce la cultura dell’innovazione, dell’imprenditoria, del cambiamento. Al contrario si sviluppa una certa apatia culturale, mista ad uno spiccato senso della conservazione delle rendite di posizione. La società si struttura per clan, per circoli, per ambiti. Il tessuto produttivo è imbrigliato da lobby bizantine che hanno il solo scopo di preservare la “posizione” e questo genera – anche nei pochi giovani rimasti – lo stesso virus: la voglia di aspettare un evento – determinato dall’esterno – che sconvolga l’equilibrio costituito. Evento che ovviamente difficilmente si realizzerà, fino a far diventare vecchi i pochi giovani rimasti. Il gatto che si morde la coda.

Tutto questo causa anche la mancanza di progettualità, la non necessità di recuperare, di restaurare o di rinnovare il patrimonio esistente: sia esso produttivo, residenziale o monumentale. Non serve, perché non produrrebbe futuro. Al contrario è più probabile spostare – le proprie risorse – verso altri contesti, più dinamici e competitivi, accompagnando passivamente l’inerzia urbana.

Lo si registra osservando la stagnazione del mercato immobiliare o la mancanza di vivacità commerciale. Lo si registra nell’assenza di attività culturali di grande spessore, nell’apatia politica dei giovani (quelli rimasti). Lo si registra osservando i pochi locali notturni e della ristorazione in genere, nell’assenza di un cartellone artistico di respiro nazionale e nel tentativo di proporre surrogati a buon mercato. Lo si registra persino quando si esasperano “localismi e “campanilismi” per ogni soffio di vento, come se non avessimo altro cui aggrapparci. Lo si registra quando ci sentiamo sempre accerchiati e mettiamo al centro del dibattito il “prima noi” invece di agire con lucidità e competenza.

Credo che una delle possibili soluzioni sia quella di lavorare per rendere queste città, quelle che diventano sempre più vecchie, un vero e proprio incubatore di gioventù. Un luogo in cui si possa coltivare l’innovazione e facilitare lo sviluppo economico. I distretti culturali, produttivi, sanitari, scolastici sono ambiti dentro i quali si può trovare spazio per rilanciare un territorio, solo se questo è consapevole delle potenzialità strutturali e umane e sappia guardare avanti.

Ma « tutte le città, anche le più infelici, hanno un angolo felice e a quel luogo bisogna aggrapparsi … la città è piena d’infelicità e d’ingiustizia, ma è anche ricca di momenti straordinari» (Italo Calvino).

Quale è il vostro? Il punto da cui ripartire?

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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