Parla il “Camillerologo” italiano Gianni Bonina: “Non prese il Nobel perché era divenuto troppo popolare”

Ora che il ‘papà’ di Montalbano se n’è andato, è giusto chiedere al più bravo “camillerologo” d’Italia – il giornalista e scrittore catanese Gianni Bonina, di origine adranite – un giudizio complessivo sull’opera dello scrittore di Porto Empedocle. Bonina ha pubblicato nel 2012 per la Sellerio un volumone di oltre 800 pagine – Tutto Camilleri – per analizzare la monumentale opera dello scrittore. Lo studio si avvale della collaborazione dello stesso Camilleri che spiega la genesi di ogni suo lavoro.

Ecco la mia intervista a Gianni Bonina per il Corriere Etneo.

Colto e popolare: sta in questa combinazione la grandezza dello scrittore Camilleri?

Era un uomo davvero colto, ma molto più in materia teatrale che letteraria. Avendo fatto televisione e teatro fino a settant’anni, maturò un senso del nazional-popolare che fece premio sulla sua dottrina. La quale non trapela dalla sua opera, che è molto mass-cult non solo per via di uno stile linguistico molto popolare qual è il dialetto ma anche per una precisa scelta di interessi. Non c’è un solo libro che possa riferirsi a un registro alto, dottrinale, sapienziale, alla Eco o alla Dan Brown. Ha avuto sempre presente il pubblico, anche nell’opera saggistica oltre che nei romanzi storici e civili, ed ha sempre indossato i panni del regista anziché dell’accademico e dello studioso.

Qual è la tua personale classifica dei suoi libri? 

Preferisco, come lui, i romanzi non del ciclo di Montalbano. Ma a differenza di molti, che scelgono i romanzi storici, sono legato a due categorie: la cosiddetta “trilogia delle metamorfosi” che riunisce le favole di Maruzza MusumeciIl casellante e Il sonaglio, e i romanzi borghesi come Il tailleur grigioL’intermittenzaUn sabato, con gli amici. I primi perché propongono una Sicilia colta nella sospensione tra realtà e magia, che è la cifra più autentica; i secondi perché non sono siciliani e non si servono in eccesso del dialetto, proponendo dunque un Camilleri non prigioniero della gabbia dorata che si era costruito ma da dove amava spesso evadere. Ogni occasione che aveva per lasciare Montalbano era per lui una gioia, ma era Montalbano che gli assicurava il successo. La trovata, negli episodi successivi al 2004, dopo La pazienza del ragno (dove una donna riconosce Montalbano per averlo visto in televisione), di sdoppiare la figura del commissario, di immaginare un confronto con sé stesso, di rendere Montalbano sempre più nevrastenico e depresso, è frutto di una crescente insofferenza che Camilleri vivrà fino alla fine. Più volte pensò di farlo morire, ma sapeva di essere legato visceralmente a quel personaggio così invadente.

Quali sono quelli imperdibili? (Personalmente l’ho conosciuto con ‘Il birraio di Preston’ e quel libro m’è rimasto nel cuore).

Il birraio di PrestonLa concessione del telefono e Il re di Girgenti sono considerati i suoi libri maggiori e più riusciti. E’ vero in parte. Si tratta di romanzi dove l’esercizio di stile, la ricerca, persino la leziosità, è molto evidente, rasentando il manierismo. L’impressione è che cercasse il capolavoro, che però nasce quando non è cercato. Meritano senz’altro di stare in cima alla pila altissima delle opere di Camilleri, insieme con Un filo di fumoPrivo di titoloLa pensione EvaIl nipote del negus, ma tre titoli consiglierei caldamente: La scomparsa di PatòLa mossa del cavallo e Le pecore e il pastore. Hanno tutt’e tre quanto è del Birraio, della Concessione e del Re di Girgenti, ovvero l’ironia, il gioco combinatorio delle parti, i rivolgimenti di identità, le mosse del doppio e lo scambio tra verità e versione, ma in più possiedono una dote unica, che non si ritroverà più, una nota che segna il carattere dei siciliani: la mistificazione che diventa impostura nel quadro di una prevalenza delle ragioni del potere costituito su quelle di base, umane, elementari. La scomparsa di Patò ha in più una tecnica narrativa che si vale di strumenti grafici non più adottati dall’autore e di accorgimenti diegetici che richiamano Privo di titolo, romanzo anch’esso di grado superiore.

Costruzione perfetta delle trame e solido architrave storico nei romanzi. Assieme alla ‘musicalità’ della scrittura ritrovo queste caratteristiche in tantissimi suoi libri. Era questa la sua ‘formula’?
Bisogna distinguere tra formula e formula. Camilleri è stato uno sperimentalista accanito e impenitente. Il Camilleri del Montalbano non è lo stesso di quello che saccheggia gli atti dell’inchiesta parlamentare sul banditismo e l’Inchiesta Sonnino-Franchetti, né è lo stesso dei saggi e dei romanzi borghesi. La sua musicalità è un insieme di spartiti da applicare ognuno a un modello diverso di libro. Le trame montalbaniane sono mutuate da Simenon e soprattutto dall’esperienza televisiva e  teatrale, rispondendo a un canone fisso: più storie, almeno due, separate e che piano piano convergono, disseminazione di indizi insignificanti che poi si rivelano decisivi (come in un film la cinepresa che inquadra un oggetto in primo piano), sospetti in capo a più indiziati, e scioglimento finale affidato al “saltafosso” o “sfondapiedi” (il tranello in cui il commissario fa cedere il maggiore sospettato) o alla cosiddetta “presa estetica” di cui parla Greimas, che consiste in una luce improvvisa che si accende nella testa del commissario il quale si rende conto di ciò che essa illumina quando sparisce. Le trame invece dei romanzi storici, come delle favole, delle biografie romanzate quale Il colore del sole (altro titolo certamente mperdibile), sono invece esemplate su un piano diacronico, secondo uno svolgimento cronologico e naturalistico di stampo ottocentesco.  

Dopo Gadda, Camilleri ha il merito di avere creato una lingua che non esiste ma che tutti conoscono, il “camillerese”.

E’ un’idea ricevuta quella secondo cui Camilleri avrebbe inventato una sua lingua. Tale convinzione è radicata nella critica nazionale che ovviamente è prevalente rispetto a quella siciliana. Non conoscendo il siciliano, tale critica è quella che leggendo “babbiare” intende balbettare e non si rende conto che Camilleri ha soltanto adottato il dialetto che conosce, quello agrigentino, senza variazione alcuna: con l’eventualità che anche siciliani di altre province, non comprendendo espressioni come “gana”, “tambasiare”, “smorcare lo sbromo”, pensino a un lessico invenzionale. Il “camillerese” non è mai esistito, ma a Camilleri piaceva ovviamente farlo credere. E’ tuttavia un fatto che quando non ricordava una parola agrigentina chiamava i suoi vecchi amici Alfonso Giglio e Ciccio Burgio, esattamente come facevano con i loro Pirandello e Verga.

E’ stata la riconoscibilità a tutte le latitudini di questa lingua a decretare il successo?
Chi può dirlo? Nemmeno Camilleri comprendeva le ragioni del suo eccesso di successo. A parer mio è stata piuttosto l’incomprensibilità del testo ad avere avuto la sua parte. Agli inizi – parlo dei primi titoli di Montalbano, nei quali appare l’uso accentuato del dialetto, perché in quelli precedenti, da Un filo di fumo a La strage dimenticata a La stagione della caccia, è del tutto contenuto e sporadico, più in bocca ai personaggi che all’autore, mentre poi si ha una inversione che è la vera novità introdotta da Camilleri – il lettore soprattutto continentale  incontrava termini dialettali e in essi, come nella costruzione diegetica, trovava l’elemento ironico che lo attirava. E’ successo con Camilleri quanto capitò alla compagnia di Angelo Musco che andò a recitare Martoglio in stretto catanese a Odessa, allora in Russia, suscitando non solo la risate del pubblico ma ottenendo anche la loro comprensione. Evidentemente il siciliano induce il riso in chi non lo conosce e si fa comunque capire. 

La scrittrice siciliana Simonetta Agnello Hornby ha sempre sostenuto che Camilleri meritava il Nobel per la Letteratura. Esagerava?
E di molto. Camilleri non ha avuto il Nobel ma nemmeno uno dei premi italiani cosiddetti importanti, dallo Strega al Campiello. Il motivo è – e lui lo sapeva benissimo – che era divenuto troppo popolare, indegno di un riconoscimento letterario appannaggio non di intrattenitori come lui viene considerato dalla critica sia militante che accademica. Che oggi si sbraca a magnificarne la statura di grande scrittore. Il grande merito di Camilleri è stato di avere convinto lettori di un libro l’anno ad entrare in libreria. L’altro è di aver continuato l’opera di Sciascia fatta sulla Sicilia, non però spiegandola ma raccontandola.

Per avere scritto e studiato la sua opera immagino lo hai anche incontrato. Era contento delle tue analisi sui suoi libri? Di cosa gli piaceva parlare?
Ho conosciuto Camilleri nel 1996 quando a Siracusa gli fu conferito il Premio Vittorini. Non lo conosceva nessuno ed era considerato solo un autore emergente. Fu al Castello Maniace: girava cercando i bagni e la stessa cosa stavo facendo io. Ci mettemmo a farlo insieme, con una certa premura. Disse: “Chi lo trova per primo ha la precedenza”. “Ma no – feci io. – La precedenza ai più grandi”. E lui: “No, prima lei, così ho il motivo di fumarmi una sigaretta”. Conobbi un signore settantunenne simpatico e ironico. Ma in tantissimi anni non siamo mai arrivati a darci del tu. Quando gli proposi un libro di circa mille pagine su tutti i suoi libri recensiti da me e spiegati da lui non credette alla riuscita dell’opera ma via via si impegnò collaborando con slancio. Molte volte battibeccavamo. C’è anche nel libro (Tutto Camilleri) testimonianza di questi scambi di vedute contrastanti, al punto che mi disse “Se continua a insistere sulle sue tesi l’intervista finisce qui”. Invece continuò, perché mi riconosceva quello che per lui era un merito: il fatto che parlassi avendo letto tutto ciò che ovunque avesse scritto. A volte mi suggeriva le domande o mi chiedeva di modificarle e si arrabbiava quando gli dicevo che non potevo. Non so francamente se apprezzasse i miei giudizi. So che a molte persone consigliava di leggere il libro, che ha avuto tre edizioni aggiornate, e certamente mi fu grato quella volta in cui mi diede un manoscritto da rivedere prima di pubblicarlo e trovai che aveva fatto viaggiare in Sicilia un prefetto dieci anni prima che le ferrovie arrivassero in Sicilia. Gli piaceva parlare di sé, della Sicilia, della giovinezza, ma non della sua famiglia. Teneva molto alla sua privacy ma fu contento quando pubblicai un servizio scovando tutti i suoi amici d’infanzia a Porto Empedocle che mi raccontarono delle sue bricconate. 

Lascia eredi nella letteratura, Camilleri?
Lascia solo epigoni. Un po’ come un esploratore, ha lasciato la mappa di un mondo vergine. Oggi non ci sono scrittori e scrittrici siciliani che non usino il dialetto e non cerchino di scimmiottare Camilleri anche nelle costruzioni sintattiche. Un paradosso. Grandi autori come Bufalino e Sciascia, Vittorini e Brancati, Consolo e Bonaviri non hanno avuto alcun erede perché inimitabili. Camilleri è invece ricalcato e io temo che ciò avvenga perché troppo popolare. Alla fine il suo più grande merito si è tradotto in un grave deficit che minaccia di confinarlo in futuro in un cono d’ombra.

Riguardo l'autore Nicola Savoca

Giornalista professionista dal 1992, ‘annus horribilis’ per l’Italia e la Sicilia soprattutto. Dirige il Corriere Etneo dal 2017 ma non ha mai usato la bacchetta. Le sue grandi passioni sono lo scrittore John Fante e il regista Giuseppe Tornatore. Radio e televisione sono il suo terreno preferito. La vecchia Telecolor gli è rimasta nel cuore. Catanese di Adrano, ha un debole per la sua città. Su un’isola deserta porterebbe tutti i dischi di Lucio Battisti (la preferita è Anche per te).

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