“Sul prezzo del latte c’è l’accordo. Il tavolo convocato dal prefetto di Sassari Giuseppe Marani ha chiuso un’intesa che prevede 74 centesimi al litro, con l’impegno di un conguaglio a novembre in base al prezzo di mercato del pecorino romano. Al vertice in Prefettura hanno partecipato i rappresentanti dei pastori, le aziende di trasformazione con i rappresentanti del governo, della Regione Sardegna e delle associazioni di categoria” (fonte Rai News). E le pecore?
La mente corre subito al romanzo allegorico di George Orwell. “Ho visto un ragazzino, forse di dieci anni, che guidava un enorme cavallo da tiro lungo uno stretto sentiero, frustandolo ogni volta che cercava di girare. Mi ha colpito il fatto che se solo questi animali prendessero coscienza della loro forza non dovremmo avere alcun potere su di loro e che gli uomini sfruttano gli animali più o meno allo stesso modo in cui i ricchi sfruttano il proletariato” (La fattoria degli animali). Certo, altri tempi e altre questioni.
La questione è proprio questa. Al tavolo della concertazione c’erano tutti, tranne le pecore (o le mucche, se volete). Detto così, sembra una follia e molti di voi, staranno pensando: ma che c’entrano le pecore? Sono solo degli animali. Fanno il latte e basta, il pastore le munge e ne ricava profitto. Punto. Ovviamente il mio scopo è farvi riflettere sul significato allegorico di questa storia. Qualcuno, stuzzicato dalla provocazione, mi evidenziava che il pastore è buono con le pecore e loro in cambio fanno il latte. Non saprei. Il pastore lavora per sé, fornisce vitto e alloggio alle pecore; le cura per avere un buon latte da vendere; non direi che c’è un rapporto di vero amore. Insomma il pastore guida e cura le pecore per il latte, magari vuole loro bene, ma fino a quando fanno il latte, poi le macella. E non ditemi che le macella perché le vuole bene?
Ora la questione è che il latte è delle pecore e il pastore, con i sindacati, i politici e le associazioni, hanno concordato il prezzo del suo latte. Le pecore non sono state invitate, nemmeno per un piccolo saluto o per esprimere un’opinione. Forse nemmeno sanno che si è discusso del loro latte.
Questa storia buffa, sembra la stessa che si ripete in altri contesti, dove i pastori e le loro organizzazioni (i politici, i leader, i manager, i dirigenti, le lobby, ecc.) discutono del latte e del suo valore: cioè discutono, senza tenerne conto, di ciò che l’uomo produce e idea, di quello che desidera e spera, dei suoi sogni e delle sue aspirazioni.
Nella letteratura universale il pastore è buono e cura le sue pecore e su questa immagine allegorica si sono realizzate tantissime opere d’arte. A dire il vero anche l’idea del sacrificio dell’agnello non mi convince molto: per ottenere i favori di un dio, sacrifico l’agnello, troppo facile. Ma ci ritorneremo un’altra volta su questa vicenda, che vede Prometeo e Zeus a discutere di modalità e procedure, la mitologia greca è strepitosa e poetica.
La questione, quindi, è definire il rapporto tra pecore e pastori. Capirne il loro legame e se questo è fondato sugli interessi di uno sull’altro o sull’amore reciproco. Fosse per la pecora, il latte non lo darebbe al pastore: è costretta. Non immagina nemmeno che il suo latte abbia un valore commerciale e valga settantaquattro centesimi. Non immagina che il suo latte è definito bio, naturale e che se se ne produce troppo, l’Europa sanziona. Forse è meglio cosi. A dire il vero si potrebbe estendere questa metafora alle mele, al miele delle api e cosi via. Da qualche parte c’è scritto: custodisci e coltiva la terra, disse Dio agli uomini. Coltiva, alleva, ecc. ecc. quindi l’uomo – su indicazione di Dio – rappresenta la pecora, al tavolo delle contrattazioni sul prezzo del latte in Sardegna. Questa è la spiegazione teologica. Ci sta tutta e ormai da secoli va bene così. Anche se il pastore dovrebbe essere più rispettoso della pecora, magari migliorando le sue condizioni di vita (vitto e alloggio), magari rispettando il suo ciclo naturale e magari introducendo un poco l’ascolto della musica in campagna e qualche mostra di arte contemporanea. Scherzo, ovviamente, ma qualcuno ha già intuito dove voglio arrivare.
Da secoli, animiamo e umanizziamo gli animali, facendoli diventare metafore e allegorie di vizi e virtù. Da secoli dominiamo la terra e le sue creature (non tutte e non sempre, per fortuna) per soddisfare i nostri bisogni. Siamo pastori e nello stesso tempo pecore. E se siamo pecore, vogliamo diventare pastori, e non viceversa. Qualcuno dice persino che se un giorno diventerà pastore, sarà diverso dagli altri, ma così non è. Ci sarà sempre qualcuno che tratterà, per noi, pur non avendone il diritto. Qualcuno che sceglierà questo o quello in nome nostro. Qualcuno che ci porterà al macello senza il nostro consenso. Qualcuno che userà il bastone e i cani per guidarci – non nei pascoli, sulle colline verdi – ma dentro un capannone angusto e buio, per produrre sempre di più. Qualcuno che si dichiarerà pastore, buono e misericordioso, ma sarà sempre un pastore che in fin dei conti vuole ricavare latte, lana e carne dalle sue pecore. Un pastore che dirà a tutti di amare le sue pecore, ma solo fin quando produrranno qualcosa: consenso, affari, fortune e adulazioni.
Mi piace concludere con quel capolavoro pubblicitario di qualche anno fa in cui la Volkswagen – per pubblicizzare un suo prodotto – ha come protagonista un ariete nero, animale dalla forte personalità che nasce in un gregge di pecore ma che, sin dai primi passi, rivendica il suo essere unico e la sua natura di leader. Forse servono meno capi (pastori) e più leader (arieti) in questo momento, chissà? Il latte è a 74 centesimi, e le pecore cominciano a capire.