Neo monachesimo, il modello Shanghai: ricostruire un nuovo mondo e conservare il seme dell’umanità

Shanghai è il futuro. La proiezione del presente oltre l’immaginazione. Una rete di paesaggi digitali, interconnessi tra loro. Intelligenza artificiale, robotica, big data. Se vogliamo vedere il nostro possibile futuro, dobbiamo conoscere il suo presente. Smart City e città verticale. Una torre di Babele del XXI secolo. Velocità, luci iconiche, una vivacità senza sosta, senza tregua. Un luogo in cui è possibile riprodurre ogni luogo. I profumi di questo mondo, le sue tracce più ridondanti, raggiungono persino le nostre terre, come eco. Il viaggio di ritorno di Marco Polo, che porta nell’occidente la sua versione aumentata. Quasi una città stato, come molte megalopoli che tendono a diventarlo sempre più. In molti restano affascinati da questo futuro; imbarazzati dalla grandiosità e quasi sottomessi. Una città che ha abolito (così dicono) molte devianze urbane. Governata da algoritmi e macchine potentissime, capaci di gestire infinite variabili parametriche. Un governo digitocratico, impersonale e irreversibile. Sembra un film di fantascienza, ma non lo è.

Il tempo, sfugge – come ci narra Francisco Goya nel suo celebre dipinto, Saturno che divora i suoi figli – e noi a inseguirlo fino allo sfinimento, nel tentativo di emulare Shanghai. Il tempo fugge per noi, per i nostri figli, per tutte le cose che “dobbiamo” fare entro e non oltre. Prima di ogni cosa, prima di quello che verrà dopo. Una successione infinita di “eventi” speciali. La palestra, la lezione di violino, poi quella di greco, passando per l’aperitivo con le amiche e la riunione del club. Grazie all’effetto Shanghai, alle nuove tecnologie smart, possiamo andare sempre più veloci e smaterializzare le nostre azioni. Si accendono le luci di casa dall’auto. L’auto da casa, la raccolta fondi da facebook, il lavoro dalla camera da letto, l’archivio da google drive o icloud. Siamo qui ma nella realtà siamo lì. Onnipresenti in mille chat – contemporaneamente in conversazione con lui, lei, l’altro. Piazze deserte, vie abbandonate, luoghi pubblici svuotati. Le macchine sfrecciano con i finestrini oscurati per non vedere, per non farsi vedere. Ogni tanto – sempre più spesso – l’unica presenza sono i furgoncini: Dhl, Fedex, Bartolini, e Amazon.

Un flusso liquido, caratterizzato dalla iper velocità. Nemmeno gli artisti Futuristi dei primi del ‘900, avrebbero mai immaginato tanto. La rivoluzione digitale ha accelerato ogni processo, modificato il nostro DNA culturale e forse persino alcune parti anatomiche del nostro corpo. L’ipervelocità mette a dura prova i nostri riflessi. Stressa le nostre strategie, imbarazza i nostri sensi. Il presente è velocemente già passato. Il futuro prossimo è già archeologia. L’obsolescenza è l’unità di misura della qualità della vita. Questa nuova religione ha i suoi sacerdoti, i sui santi, i suoi dei. Competizione, performance, affidabilità, durata, graduatoria, primo, primo, primo, fuori-dentro. Dress code: Japan, New York ed Apple style. Serialità, omologazione, mancanza di errore e difetto. Perfezione, di serie. Uniformità cromatica, morfologica, olfattiva, tattile. Un algoritmo emozionale ad alta risoluzione. Effetto collaterale del sistema binario convulsivo. Come si diceva una volta; alla velocità della luce. Forse di più.

Fermate tutto, voglio scendere, mi gira la testa. Ho premuto il tasto sbagliato. Reset. Mi sento come un “monaco in riva al mare” di Caspar David Friedrich. La natura ha un suo tempo, un suo ritmo. Per covare le uova – naturalmente – una gallina impiega ventuno giorni. Dico ventuno giorni e non ventuno minuti. Se penso all’allevamento dei polli intensivi – con tempi di maturazione, 2-3 volte più veloci di qualche anno fa, viene da riflettere, che polli sono? Sono polli atomici.
La società si era strutturata, in passato, secondo un modello organizzativo (pseudo) democratico. Nel senso che ogni soggetto politico aveva un certo tempo di incubazione. Uno spazio fisico dove esercitare le relazioni umane. Una palestra dove allenarsi alla politica. Fatta di incontri, riflessioni, dialettica, contradditori. Questo generava gerarchie, spazialità, nessi, reti. Processi, sintesi, piani, strategie. Paziente attesa del momento giusto. Esaltazione dell’esperienza e della conoscenza (che con essa era legata). Un modello reticolare, per strati. Un linguaggio tale che si esaltava la parola gruppo, classe, partito. Un contesto in cui le idee avevano bisogno di maturare, di modellarsi, di evolversi, di crescere.
Oggi siamo sempre più governati dalla “teocrazia” iconica. Da personaggi, da simboli umani. Afferenti a target diversi, interfaccia tra i rappresentati e i gestori dell’algoritmo universale. I teocrati sono diventati figurine intercambiabili. Sostituibili e riciclabili. Gestite da un sondaggiometro (strumento che misura la digeribilità) che ne determina l’uso pubblico o privato. Tutto molto velocemente. Come l’incubazione dei polli di cui sopra.

Ridatemi il tempo libero. Lo spazio per la creatività. Ridatemi una quota significativa di tempo tra un “evento” e l’altro. E ridatemi lo spazio. Voglio lo spazio che era mio. Quello tra la barca e la terraferma. Quello tra una rosa e la dondola. Quello tra casa mia e il bar. Ridatemi l’errore, lo sbaglio, il difetto. Ridatemi il chiaroscuro e il naso storto. Ridatemi il fruscio del giradischi e il suono delle vie quando passa la banda. Ridatemi il profumo della caponata. Ridatemi lo spazio tra la chiesa e il parco, tra la scuola e la casa della fidanzata. Ridatemi tutti i miei errori. Quelli che avete scartato. Ridatemi la mela dai mille colori e dalle forme imbarazzanti. Ridatemi la democrazia, quella fatta con le idee. Ridatemi il parroco della chiesa madre, il sacrestano e la signorina che si confessa di venerdì. Ridatemi la rabbia, il dolore, la sconfitta e l’opportunità per rialzarmi. E anche un foglio di carta profumata, da dipingere nei tavolini delle caffetterie, lungo la strada grande. Ridatemi le mani, gli occhi miopi che si chiudono con il sole.
Se Shanghai è il futuro, ridatemi il mio monastero. Il luogo dove in pochi, hanno il dovere di conservare il seme dell’umanità, per ricostruire una nuova città. Fuggire o ri-costruire un nuovo mondo?
Quanta poesia c’è, nell’imponderabile difformità del cielo azzurro, che Michelangelo volle fissare – per sempre – a cornice del Giudizio Universale? Ridatemi Lorenzo, quello Magnifico. Ridatemi la Politica e con essa Pericle, Marco Aurelio, Federico II e Luigi Sturzo. Per essere Liberi e Forti, ancora una volta.

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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