Il Super Mercato, verso nuovi assetti: l’implosione commerciale cambia le regole tra domande e offerta

Siamo cresciuti sotto la protezione di Superman. Invasi da eroi venuti da lontano: dalle galassie, da altri continenti, dal futuro. Eravamo abituati ad altro. Alle piccole botteghe sotto casa, quelle dove si trovava tutto quello che serviva. Dove si praticava il piccolo credito, dove ci si conosceva tutti e si comprava anche a peso, a pezzo e non a confezione. Mercerie, salumerie, empori, con l’insegna sopra la porta con il nome del titolare. Ogni quartiere, ogni strada, ogni piazza aveva la sua “putìa”. Poi c’era il macellaio, il pescivendolo, il panettiere e via così fino a quello che vendeva bottoni, stoffe e filo.

Poi arrivarono i super eroi, che tutto hanno e tutto possono. I Supermercati, diventati, qualche tempo dopo ipermercati, fino a trasformarsi in giganti privi di nome. Enormi palazzi senza finestre e senza fine. Atterrati come astronavi ovunque, anche sotto casa, dove c’era chi cantava: “C’è un grande prato verde, dove nascono speranze” (Gianni Morandi).
I nostri figli sono cresciuti con questi pachidermi commerciali, che hanno condizionato la nostra cultura, espropriato la nostra terra, persino modificato il paesaggio. Educati a consumare nuove merci, abbiamo modificato le nostre abitudini. Quella marca, quel prodotto, quella confezione, solo quella. Poi abbiamo scoperto che si poteva andare nei supermercati più forniti, quelli che offrivano gli stessi brand che vedevamo in TV e poi c’erano gli altri, più nelle periferie, ai margini della città, con marche misteriose ma che costavano di meno, li chiamavano hard discount.

E’ di questi giorni la notizia che una grande famiglia – gli Abate – protagonisti della grande distribuzione, in mezza Sicilia, stanno vendendo/cedendo i loro punti vendita, i gioielli di famiglia. Una rete distributiva capillare e di qualità a cui ci siamo abituati. Si parla di una cessione a nuovi ‘brand’, specializzati nel settore degli hard discount – e non entriamo nel merito dei tanti perché.

Cosa cambia nella sostanza? Apparentemente un semplice cambio di gestione. Ma quali saranno le implicazioni rispetto alle nostre abitudini di consumatori? E tutto questo ha un significato in termini di misurazione della ricchezza collettiva? Se le grandi catene dell’hard discount decidono di sostituirsi alla distribuzione di più alto livello, può significare qualcosa per questo territorio?

La scomparsa – piano piano – di quell’offerta di qualità, cioè anche di più prodotti e di scelta, che invece troviamo nel nucleo della città metropolitana, potrebbe causare un’ulteriore depressione urbana per i centri periferici. Per accedere ad alcuni ‘brand’, il consumatore potrebbe doversi spostare verso la città di Catania, oppure cambiare le sue abitudini.
In pratica, siamo di fronte a una modifica del target prevalente. La sostituzione sul piano commerciale in atto, è di fatto la conferma di una crisi strutturale del sistema della distribuzione che ha rotto l’equilibrio tra domanda e offerta. Tra ‘brand’ e territorio. Un’ecologia commerciale che è stata violentata negli ultimi decenni con la nascita di innumerevoli centri, in provincia di Catania e oltre. Proliferazione che ha svuotato le città storiche della piccola distribuzione (di qualità). La scommessa era quella di mantenere la qualità dei prodotti diminuendo i costi e invece si è preferito moltiplicare i grandi centri commerciali fino a trasformarli (oggi) tutti in hard discount.

In “Urban Cosmographies” (pubblicazione di qualche anno fa) di Södertröm, Fimiani, Gianbalvo e Lucido si evidenzia che siamo di fronte a un nuovo modello commerciale che trasforma la struttura della città. Le lobby della distribuzione commerciale ridisegnano lo spazio urbano attraverso scelte autonome, condizionando la rigenerazione o la desertificazione di parti consistenti di territorio. E Lucìa Etxebarrìa, nel suo romanzo “Cosmofobia”, descrive un modello socio-commerciale ormai ricorrente: la distribuzione abbandona il centro storico per occupare spazi nei centri commerciali fuori la città e lascia entrare senegalesi, cinesi, egiziani ecc. ecc. Questi ricostruiscono la rete solidale del piccolo commercio di quartiere. Quello che caratterizzava le nostre città e costruiva una rete di rapporti personali fatta da condivisioni, solidarietà e identità.
Quindi qualcosa non ha funzionato. O forse era tutto previsto. Il sistema è andato in cortocircuito. Qualche anno fa scrivevo “l’inventore di città”, riflessione su Etnapolis, pubblicata sulla rivista URUK. Forse oggi andrebbe riletta per comprendere che era tutto prevedibile: leggi qui

Abbiamo incentivato la creazione di nuovi punti vendita della grande distribuzione che hanno modificato (storpiandolo) il nostro paesaggio urbano. Abbiamo creduto che ciò portasse ricchezza diffusa (in un primo momento sì). Abbiamo pensato che lo “sviluppo irreversibile” fosse la giusta strada contro la “decrescita felice”, (Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri).

Invece scopriamo che stanno per collocarsi a tappeto, gli hard discount; che erano troppi i punti vendita; che si sono accumulati forti debiti nella gestione; che sarà complicato trovare i prodotti a cui eravamo abituati e, come se non bastasse, diminuisce l’occupazione e aumentano i costi per il consumatore. Un bel pasticcio.

Carlo Sangalli, presidente della CONFCOMMERCIO afferma l’idea che “…sostenere la rete della piccola distribuzione può costituire la vera strategia per uscire dalla crisi economica insieme al potenziamento della rete di distribuzione dei prodotti agricoli della filiera corta, nelle piazze e nelle campagne urbane”.

Speriamo che i commercianti capiscano che una parte di questo lavoro/visione dipende anche da loro, (anche dalla politica) dalla capacità di cogliere l’opportunità, di determinare cambiamenti, di costruire convergenze, di individuare metodologie e strumenti efficaci. Potenziare la piccola distribuzione, puntando sulla qualità dei prodotti. Questo terremoto nella rete commerciale può essere la causa della depressione urbana del territorio, oppure diventare un’opportunità di rilancio delle città – che potrebbero sostenere la nascita di piccole botteghe – diffuse nei tessuti urbani interni – per offrire prodotti di qualità, dalla filiera corta e dai costi accessibili. Imprenditorialità, innovazione ed eticità. Un nuovo modello da esplorare.

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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