“Che l’innamoramento non debba mai finire e altro diventare”(p.191): in questa frase l’intera dimensione ontologica di portata metafisica, nel racconto di Alberto Giovanni Biuso in “Il valzer di un giorno” di Franco Carlisi, Gente di Fotografia Edizioni, 2018.
L’innamoramento come dimensione esistenziale, gioiosa e naturale. Non ha padroni l’amore, si ritrova nell’istante, si ritrova in un topoi indecifrabile dell’istante e si insinua nel sorriso indecifrabile tra i denti e l’anima, di un sorriso unico dell’origine di un corpo femminile che dà origine e che diventa pensiero invasivo di un pensiero che invade sé stesso.
In fin dei conti, ci s’innamora sempre dello stesso pensiero barthesiano di un: “Ti amo perché ti amo”. Ma non sempre le parole dicono.
In un’onda pulita nel mare dell’ universale sozzeria, si ritrova l’istante, il tempo perduto, di un pensiero che riflettendosi trova forza e coraggio, trova la consapevolezza di un istante che scolpisce la figura, si instaura nell’immaginifico di una perfezione che perfezione non è, in una consapevolezza di una pagliuzza che diventa manifesta nel luccichio dell’oro con il quale gli amanti si guardano e basta. Il mondo li guarda, invidioso e beffardo, e se ne compiace.
L’innamoramento non è consuetudine, guizzo felice di una dimensione personale e intima, intima come l’abbraccio, intima come il timbro della voce, intima come riconoscimento di tempo profano, rubato.
E poi il nulla, il filosofo Alberto Giovanni Biuso ritrova grazie alla dimensione narrata la libertà, la libertà di respirare aria libera, le nuvole basse, il canto della luce e i suoni striduli della memoria [pag. 191], i raggi di un giorno di luce che sovviene per annunciarsi e il canto degli uccellini che ti annunciano un nuovo giorno manifesto. Sei finalmente vivo, con tutta la naturale luce, quella più intima che ti appartiene e che ritrovi.
La memoria, di un tempo veloce e lento, un sapore antico e sempre presente: ” è il mio pensiero di te il mio sorriso”. La memoria antica che si fa presente nell’immaginifico del pensiero che diviene, come il Chronos (χρόνος) che affida all’Aiòn (αἰών) tutte le proprie speranze.
Unico, repentino, incalzante il primo racconto del filosofo Biuso, nella consapevolezza del baratro del nulla, non si arrende, ancora una volta, a far sognare le parole, gli attimi, il respiro del desiderio, l’amabilità delle parole. Ripetute, ripetute, risentono l’eco della sostanza dei sogni, dell’affermazione che è eternità, piena e feconda. Luce per vedere, devi vedere in luce, nella luce della claritas. Mancano le parole dove c’è il tutto, perché è il nulla: assordante, fastidioso, accecante, fremito vitale, solare, gioia di un tempo inarrestabile.
“Non è mai abbastanza ciò che scrivo per te”[p. 192], perché l’abbastanza è ciò che basta a qualcuno, una condizione di pace e non si cerca altro. Ma non è mai abbastanza è la condizione di un sogno, non è abbastanza la Totalità, il Verbo, la temporalità, il corpomente? Trovando l’Altro ci si ritrova, che non è codice linguistico ma l’istante di consapevolezza di un nulla tanto maturato quanto forte, assordante, infedele e indelebile.
L’istante e il nulla si incontrano, la vita inizia ad avere senso, diviene mistica e divina, ingiustizia di un tempo beffardo, corto, di amplessi condivisi, in un fluido che non è topico e spaziale ma è nell’evoluzione dell’extraterritorialità di perdita di coscienza: l’estasi ha sempre una dimensione spirituale e mistica. Nel ritmo dell’immaginifico l’uno si dona all’altro, nuda come sostanza originaria di nascita.
La fuga, il rifugio verso sé stessi, la consapevolezza di un amplesso tanto condiviso tanto odiato: ci si concede sempre nell’originaria posizione di nudità. Nasciamo nudi e nudi abbiamo la naturale consapevolezza della nostra fragilità. L’amore vince quando crea emozione, ricordi manifesti, antiche emozioni, il silenzio di una coscienza inconfessabile, serena e luccicante come le stelle, di una luce che non conosce origine ma che sappiamo indelebile ricordo in un dono d’amore.
Allora, il distacco, la nostalgia, l’odio del tempo finito, del gioco infantile, la pesantezza di un idolo, la pesantezza dei rigori. E poi lei: la leggerezza, il sorriso, il raggio nella luce, il niente nel niente.
Un antico ricordo, la dimensione del ricordo soave, il lutto soave, vero e veritiero e la culla dentro le gonne austere, il sapore del pane e il profumo di un’abilità perfetta.
Aveva conosciuto il metodo per arrivare vicino all’umido del cuore e ora che ne era bagnato non riusciva più a staccarsi da questo sentimento. E ,allora, riflette sul metodo e nel metodo rigoroso matematico cartesiano, logico e compiuto, nell’evoluzione dell’assioma c’è solo la sua implicita applicazione.
Ma il nulla non è geometrico, di quella geometria della sua testa dentro le sue gambe, di quella continuità che andava oltre lo zero. Il numero perfetto di essere tanto imperfetto, di una vita che rinuncia al titolo perché finalmente è vita.
Disumana è la vita e miracolosa è la consapevolezza che in questa, non in una stella, è troppa vicina per essere guardata.
Lirica, poetica, bella la dimensione dell’uomo che sorride alla vita dopo aver visto la luce.
Sì, si nella consapevolezza che nulla ci si aspettava perché è nella nostra perfezione che non cerchiamo. Ma quando si respira il respiro, difficile trovare un cibo che offre sazietà per chi conosce che anche l’amore si nutre del digiuno, si vive nella consapevolezza che Biagio, l’amico confidente, l’Altro da sé, l’altro amico di se stesso, dichiara la probabilità di una vita certa, sicura, regola e regolamentata.
Un pesce nuota se non nell’acqua, questa la consapevolezza dichiarata all’amico Biagio, è l’universo di un uomo solo, una solitudine che sta dentro l’universo degli uomini unici. L’acqua superi anche questo, superi il limite del suo limite: il nulla. Il valore sta nel valore del tutto e del nulla. Il niente è altro, è il valore dato e datato del ricordo ontologico, esistenziale e vissuto.
Il gelo, il freddo, distanza di una nascita non voluta. Ora si accorgeva che ne valeva la pena. Era un uomo felice. Tentava di trasferire la sapienza in altro: nei medici capaci di medicine, di sapienti farmaci, di veleni resi ai corpi e all’anima. Lui che aveva conosciuto, non poteva trasferire un linguaggio perfetto, geometrico, medico: sì troppo facile nell’oggettività dell’oggettivazione.
Ne riservava l’intimità che è propria della bellezza, degli occhi luccicanti di chi incontra e si sente smarrito e trova il buio.
Esaltante il racconto pieno dell’autore, nel raccontare e nel descrivere un luogo con-diviso, terrificante un luogo in cui ancora dormire, terrificante e vuoto ma non nudo.
La nudità appartiene all’origine, da dove veniamo, dal nulla.
Carmen Valentino