L’idea di prefigurare un modello di sviluppo, che rilanci un territorio è affascinante. La possibilità di costruire un nuovo paradigma che metta a sistema le infinite combinazioni culturali ed economiche che caratterizzano una valle, un distretto, un bacino, uno spazio urbano, dovrebbero condizionare l’agenda politica di una comunità.
Da qualunque punto si vuole partire, a me sembra che la scuola sia – con la sua strutturazione sul territorio – strategica e da essa bisogna ripartire. Questa analisi potrebbe rimanere nell’alveo dell’approccio generalista, ma e’ più utile contestualizzarla – per esempio nella valle del Simeto – per poi dedurne le implicazioni generali.
Da una parte, quindi, si possono valutare le risorse. Cioè le vocazioni di un territorio che affonda le sue radici nella cultura agricola, con le innumerevoli implicazioni storico-culturali che ne derivano. Risorse che determinano la produzione di benessere, di lavoro e di dinamicità sociale. Dall’altra, un’offerta formativa strutturata, secondo un modello forse ormai obsoleto. Un modello realizzato per comparti, dove alcune proposte sono considerate secondarie o di risulta.
Il raccordo tra questi due sistemi è il mercato del lavoro che spesso è sconnesso o sottovalutato da chi deve pianificare e programmare (scuola-territorio). Per capirci meglio: le risorse esistenti e potenziali (agricoltura, turismo, artigianato, ecc.) determinano il mercato del lavoro; questo condiziona la domanda formativa e da questa deriva quindi la definizione dell’offerta formativa, che si dovrebbe allineare alle richieste del territorio.
Quindi a partire dalle risorse è necessario definire le implicazioni imprenditoriali e produttive e a cascata definire un’offerta formativa il più possibile coerente alle esigenze del mercato del lavoro. Quando questo non avviene si realizza un cortocircuito, che produce depressione urbana, infelicità e disoccupazione.
A complicare le cose c’è anche un pregiudizio diffuso nelle famiglie. I licei sono per i più bravi (e tra questi licei esistono altre discriminazioni e sottocategorie), mentre negli istituti tecnici e professionali confluiscono – secondo un diffuso luogo comune – i disadattati e i meno dotati (anche se questi istituti raccolgono sempre più, riconoscimenti anche internazionali di qualità didattica e formativa). Questa visione – tipicamente meridionale – non è stata utile a rilanciare i settori produttivi di questo territorio, che al contrario hanno una vocazione prevalentemente agricola e potenzialmente turistica – se pensiamo al patrimonio storico-culturale e naturalistico. In pratica si realizza una formazione più per categorie sociali che per esigenze di mercato.
Poi ci sono le alchimie – spesso condizionate da fattori poco chiari – che aggregano e disaggregano istituti, licei e indirizzi, senza un progetto di sistema. Senza una logica pianificata. Senza una visione politica di distretto o di ambito.
Delocalizzando, moltiplicando o sezionando a caso, solo per ragioni di algebra amministrativa o di interessi particolari.
E questo avviene sia per la scuola di I grado che di II grado.
Entriamo nel merito di questo territorio per esempio. E’ necessario che ogni quartiere abbia un istituto che unifichi la scuola materna, elementare e media (verticalità), in un’unica gestione amministrativa e logistica che rappresenti
l’identità di quella comunità. Che esalti il rapporto tra istituzione scolastica e urbanità. Che ricostruisca il senso di appartenenza senza rinunciare a una visione di rete complessiva.Nello stesso tempo è necessario rendere sistemico il distretto della formazione nell’ambito dei licei, degli istituti tecnici e professionali. Aggregandoli per indirizzi funzionali e potenziandoli con indirizzi più coerenti con le esigenze del mercato del lavoro nel territorio. Una visione politica, culturale ed economica che rimetta al centro la formazione.
In questo senso si propongono a titolo esemplificativo alcune possibili aggregazioni (orizzontalità). L’area classico-scientifica; l’area linguistico-sociale-artistica; l’area tecnica economica-agraria-turistica e industriale.
Ma non basta, servirebbe una compartecipazione nella gestione di parti della città, una maggiore presenza nei momenti decisionali della politica urbana, una maggiore permeabilità tra formazione e lavoro (l’alternanza scuola lavoro come metodo e come dispositivo di autoimprenditorialità).
Un piano di sviluppo integrato che riequilibri il gap tra bisogni e aspettative e crei le precondizioni per rilanciare o avviare nuovi settori della produzione.
Abbiamo bisogno che l’ambito della formazione economica sia curvato nei settori agricoli, turistici-ricettivi e industriali-artigianali per rilanciare i comparti dell’economia reale e trasformare questo territorio in un laboratorio permanente, di innovazione e sviluppo; incentivando startup e sostenendo il patrimonio dei saperi locali, proiettandoli in un ambito internazionale. Abbiamo bisogno di una nuova generazione di studenti-cittadini che riconosca bellezza, che maturi il senso della solidarietà, che ci accompagni verso nuovi mercati e nuovi scenari internazionali come la Cina, la Russia, il mondo Arabo e oltre. Serve che la politica regionale e locale stipuli un nuovo patto con la Scuola per rilanciare un territorio, i territori. Perché questo approccio ci faccia uscire da un provincialismo ormai asfissiante. Serve la migliore gioventù, serve un progetto condiviso, serve il coraggio della politica. Per creare una nuova cultura.