Nonni, i custodi del tempo: pregano, sperano e lottano per il nostro futuro

Il più grande patrimonio umano del nostro Paese. I nonni, quelli che hanno pregato, sperato, lottato e faticato per il nostro futuro. Qualcuno di noi li ha conosciuti bene, altri – solo per un attimo – li hanno sfiorati e molti ne hanno solo sentito parlare.
Morbidi e dai capelli bianchi. Custodi di segreti, rassicuranti. Dentro una fotografia in bianco e nero oppure fuori dalla scuola ad aspettare i figli dei figli.
Mitici, misterici, severi – dietro i baffi – ma rifugio sicuro per ogni nipote. Sotto le gonne, dietro i panciotti o in fondo alle scale. Nonno, nonno, nonna. E’ il grido che abbiamo almeno una volta rivolto a queste figure buffe, segnate dal tempo. Nascondono storie antiche. Sofferenze, gioie. Raccontano le loro avventure: della guerra, dell’America, della loro gioventù. Di Mussolini, dei Partigiani, del podestà e dei bombardamenti. Della fame, delle campagne e della zia. In silenzio, sotto voce anche di donna Carmela e della bella signorina con la giarrettiera rossa. Quella che per la prima volta gli fece scoprire l’amore.
 
I nonni sono le torte, la parmigiana, la salsa, le polpette, la caponata e le patate. Sono quei piatti di un tempo che sanno di orto e di pane caldo, dalla crosta ruvida e profumata. I nonni sono il tempio della famiglia. La forza di una società che perde sempre di più il senso della solidarietà e che ritrova in loro, l’ultimo confine, l’ultima barriera, oltre il quale siamo altro.
Lungo il sentiero della vita, sono stati contadini, militari, farmacisti, falegnami, maestre, attori, stazzunari[1] e tanto altro. Ma da nonni sono solo nonni. E’ l’ultimo mestiere. Quello in cui tutto si livella. Non ci sono più gradi, gerarchie, stato sociale. Semplicemente nonni. Forse bisognerebbe dichiararli patrimonio immateriale dell’umanità. Si festeggia anche una ricorrenza per loro e la dolcezza dei loro sguardi è disarmante. “U niputeddu”[2], è la loro espressione più frequente. Come se tutto fosse solo per la parte più nuova della loro discendenza. Qualche volta i figli passano in secondo piano, prima ci sono i figli dei figli a cui si vorrebbe trasmettere ogni conoscenza, ogni aneddoto, ogni storiella e filastrocca.
I nonni hanno anche un linguaggio tutto loro. Sguardi, sorrisi, mezze parole, carezze e complicità. La nonna, quella a cui raccontiamo i nostri primi amori, quella a cui confidiamo il giorno degli esami perché nessuno lo deve sapere, quella che ci prepara la pasta con i ceci e le frittelle di pane e zucchero.
 
A questi uomini e a queste donne, dobbiamo tanto. Ci hanno portato in chiesa, accompagnato sull’altare, presentati ai vicini e coperti con un lenzuolo bianco, che profumava di lavanda, tutte le volte che i nostri padri e le nostre madri ci cercavano arrabbiati.
 
Qualche volta penso che gli dobbiamo tanto e gli diamo poco. L’urbanista Bruno Gabrielli diceva, “dobbiamo pensare alle città come luoghi dove sempre più anziani hanno bisogno di muoversi e vivere. Una città a misura di nonno. A misura di anziano: luoghi per passeggiare, per essere utili, per guardare e accedere facilmente ai servizi essenziali.”. La morte di un nonno anziano avviene quando ha la consapevolezza della sua inutilità. Del suo essere solo un uomo che aspetta la fine.
In questa società che richiede sempre più performance, la lentezza di un nonno è stridente. Ma quella lentezza ci salverà.
Quella mitezza nei gesti e nelle parole. Perché quello che noi dobbiamo ancora vivere, per loro è già ricordo e quindi esperienza. In questi giorni si sente – in un momento di crisi ideologica  e dei valori – il recupero di uomini e donne di altri tempi. Sandro Pertini, Enrico Berlinguer, Aldo Moro e Giorgio Almirante (solo per citarne alcuni). Ogni città ha i suoi eroi, qualche volta dimenticati, basterebbe farli riemergere dall’oblio e imitarli un po’.
 
La città è ricca di luoghi che hanno bisogno di essere curvati per loro. Per i nonni. Parchi, piazze, percorsi pedonali. Chiese, ospedali e biblioteche. Luoghi in cui basterebbe smussare un angolo, liberare una veduta, abbassare un gradino, pulire un viale. Luoghi che potrebbero rivivere grazie al loro semplice lavoro, quello lento. Luoghi da riparare, da aggiustare. I nonni non sono pagliacci da sventolare qua e la. Da parcheggiare nei centri per gli anziani – che se non sono [sg_popup id=”7489″ event=”inherit”][/sg_popup]gestiti bene e con amore – diventano dei lager, dove farsi le foto a natale e a pasqua per pubblicarle sui social. Loro sono i custodi di questa terra. Gente seria e di altri tempi. Quelli che ancora credono nell’onore e nella stretta di mano come patto tra le parti.
Sono gli unici che ci possono raccontare il passato vero, quello che non è filtrato dalla storia, quello del vicolo accanto. Non solo la grande storia ma le vicende della quotidianità.
 
I nonni sono utili. Perché in questo momento di crisi aiutano con le pensioni – quando possono – le nuove generazioni. Perché diventano ammortizzatori sociali. Perché tengono a casa i nipoti piccoli e fanno risparmiare ai genitori le rette degli asili. Perché risolvono ogni cosa. Perché sono saggi. Saggi e non vecchi. Esperti e non dementi. Sono le nostre radici. Anche quando non ricordano più, anche quando hanno più bisogno di noi. Anche quando ci guardano e basta. Sono i pilastri della nostra società.
E allora può succedere che si spengano, che ci lascino, che vanno oltre. Può succedere che li dobbiamo accompagnare fino all’acropoli, li dove saranno per sempre nonni. Nascosti da una foto in bianco e nero, sotto una pietra aspra alle dita ma leggera come un lenzuolo bianco che profuma di lavanda. Ora si nascondono loro e guardano da dietro le stoffe le nostre nuove avventure.
 
Dobbiamo ridisegnare la città anche per loro. Dobbiamo impiantare orti per rivederli vivi. Dobbiamo raccontare con ogni strumento la loro vita, i loro gesti e i solchi sulla pelle – profondi e veri – che disegnano i loro volti. Nonni e custodi del tempo. Che i giovani sappiano che un giorno, anche loro, se saranno fortunati, diventeranno come gli eroi della nostra infanzia. Per questi nonni serve dignità e rispetto.

[1] Fabbricante di mattoni e canali di argilla cotta nella fornace.
[2] Il nipote.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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