di Francesco Finocchiaro – Rabbia, dolore, paura. Sono questi i sentimenti che invadono le nostre case in questi giorni di agosto. La tragedia di Genova con il crollo del ponte Morandi sta catalizzando la nostra attenzione. E subito ritornano in mente altri crolli e con questi altre tragedie. Il Ministro alle Infrastrutture, Danilo Toninelli e l’Assessore Regionale della Sicilia, Marco Falcone, evidenziano la necessità di monitorare e verificare tutte le infrastrutture sensibili, realizzate in passato e in particolare quelle realizzate prima della Legge antisismica del’77, con un appello a tutti gli organi di gestione, affinchè si possa realizzare una mappa dei rischi (nazionale e regionale) e quindi programmare interventi di risanamento o di demolizione/ricostruzione.
La qualità delle infrastrutture della mobilità e la loro efficienza è determinante per sostenere lo sviluppo del Paese Italia. Efficienza significa anche sicurezza, significa capillarità, significa sostenibilità.
Molti dei nostri viadotti e ponti sono obsoleti e come ci ricorda Biagio Bisignani – Dirigente Tecnico del Comune di Catania – sono stati progettati per carichi e flussi di esercizio, diversi da quelli a cui sono sottoposti oggi.
Anche le normative sulle costruzioni e i materiali utilizzati sono molto diversi da quelli che venivano utilizzati negli anni ’60 e in questo l’attuale quadro normativo è più attento alla sicurezza e alla qualità strutturale.
In queste ore – tra interviste e dichiarazioni – ci siamo fatti un’idea più precisa sullo stato dell’arte, delle strade italiane.
Qualcuno enfatizza i ponti romani – pensati per durare in eterno – ma dimentica la differenza di flussi e carichi di esercizio. Quei ponti non erano fatti per sostenere i giganti della strada come i super Tir. Certamente, l’Italia ha una lunga e prestigiosa tradizione – proprio a partire dai Romani – nel campo dell’ingegneria infrastrutturale. Ma come fu per la decadenza tecnica e tecnologica, alla fine dell’impero romano – pensate al confronto tra la cupola del Pantheon a Roma e quella di Santa Sophia aIstambul – così adesso, dobbiamo registrare un imbarbarimento generalizzato. Perché?
Il materiale, per esempio. Il calcestruzzo o l’acciaio sono più performanti e permettono una più rapida esecuzione (quello che serviva all’Italia del dopoguerra) ma hanno un deperimento più accelerato e questo presuppone un piano di manutenzione più frequente e approfondito. A questo si aggiunge la mancanza di qualità del calcestruzzo e del ferro – costituente il cemento armato – che negli anni ’60 non era proprio il massimo.
Contestualmente, la sempre più carenza di fondi, ha determinato una distillazione degli interventi manutentivi previsti a discapito della sicurezza strutturale. Non parliamo delle innumerevoli “buche” che caratterizzano il nostro paesaggio stradale, su queste andrebbe fatta una riflessione a parte.
Anche alcune anomalie sugli appalti, sub appalti e ribassi vari (fino a più del 50%) – sia sui lavori che sulle progettazione – hanno inciso in maniera determinante sull’intera filiera.
E ne vogliamo parlare del depotenziamento del traffico su ferro per incentivare – proprio dagli anni ’60 in poi – quello gommato? A quei tempi le politiche internazionali sul petrolio e la FIAT hanno determinato la conversione e quindi la concentrazione della mobilità sulle strade a discapito delle ferrovie. E il recente incidente di Bologna (quello della cisterna di gas) ci dice tutto, visto che anche i trasporti pericolosi e speciali viaggiano su gomma, sopra i ponti, in mezzo ai comuni viaggiatori automobilistici. Servirebbe una riflessione anche su questo.
Non vorrei dimenticare – in riferimento alla rete viaria – la soppressione delle provincie. Non entriamo nel merito politico ma non aver previsto un’alternativa ha generato un vuoto di governo che si traduce nell’abbandono della viabilità provinciale, privata della giusta manutenzione – e guardando la provincia di Catania per esempio – si registrano situazioni paradossali come la chiusura di alcuni tratti di strade, dove alcuni ponti stanno crollando (vedi contrada Jannarella).
Ma come verificare l’eventuale pericolo? Si parte dall’anno di costruzione, dalla verifica dei giunti tra piloni e travi, dalla più o meno presenza dei copri ferro, dalla presenza di un quadro fessurativo, dal tipo di flusso e carico di esercizio e questo solo per iniziare. Poi servono specialisti che con carotaggi e altre indagini specialistiche (compreso i monitoraggi giornalieri) determinano un preciso piano di manutenzione (urgente) o l’eventualmente demolizione e ricostruzione. Ma servono anche i piani di protezione civile per individuare criticità e strategie operative, per evitare le emergenze e programmare il futuro (spesso dai ponti passano vie di fuga e di soccorso).
In questo senso il quadro normativo – dalle prime esperienze dei del ‘900 ad oggi – è radicalmente cambiato. I terremoti del Friuli e della Campania hanno modificato il modo di pensare e costruire le grandi opere infrastrutturali e anche la scienza delle costruzioni è cambiata; diciamo anche che da Morandi in poi ne è passata acqua sotto i ponti.
Quello che preoccupa di più nella vicenda Genova sono le dichiarazioni dell’ANAS e della sua presunta verifica dei luoghi, ante crollo e delle riflessioni post crollo. Se valesse per tutti i ponti siamo messi male.
Poi c’è il paradosso viadotto Tre Fontane a Paternò – per rimanere in zona – in cui dopo il collaudo di un opera di qualche anno fa, la struttura ha cedimenti importanti. Di chi ci dobbiamo fidare? Non ci rimane che sperare o nella scienza o nella buona sorte. Ognuno faccia la sua scelta. Oppure se volete possiamo sperare nel giro d’Italia di ciclismo. Ha risolto molti di questi problemi, almeno per il manto stradale.
Quali sono i ponti e i viadotti nell’area etnea da segnalare alle autorità che hanno già dato disponibilità per intervenire?
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