Lo SVIMEZ (Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno) nel suo rapporto annuale, afferma che i giovani (e non solo) emigrano dall’Italia e in particolare dal mezzogiorno, verso il nord dell’Europa. Due milioni in fuga in sedici anni e la metà sono proprio i nostri giovani. Dal 2010 al 2018 le famiglie meridionali, con tutti i componenti in cerca di occupazione, è raddoppiata. Nelle stesso tempo assistiamo a tanti riconoscimenti – all’estero – nei confronti di tanti italiani nei campi più vari, dalla matematica alla fisica, dall’architettura alla medicina. Il giovane Alessio Figalli è l’ultimo di questi “supereroi” in ordine di apparizione. Tanti vivono senza i riflettori accessi, quasi dimenticati da questo Paese e da questo meridione.[sg_popup id=”6870″ event=”inherit”][/sg_popup]
Nello stesso tempo – sempre il meridione – accoglie (è un eufemismo) gli immigrati dal resto del mondo. Un modo diverso di fuggire dalla propria terra e un modo diverso di essere accolti in altre terre. Un tempo i padri lasciavano ai figli un “mestiere”, una bottega, un’attività da portare avanti. Quella del nonno, quella dei padri, quella che ci rendeva parte di questa terra. Di padre in figlio, di generazione in generazione.
Spento il sogno industriale (lasciando comunque gli effetti dell’inquinamento), abbandonata la campagna, impoverita la rete del commercio (tranne che per le multinazionali che gestiscono i grandi centri commerciali) e cancellato l’artigianato, tutto il resto, cioè gli indotti sono andati via via scomparendo. Un padre oggi dice a un figlio: vai via. Lontano. Perché questa terra è “gattopardiana”. Tutto cambia per non cambiare nulla.
Sono lontani i tempi di Federico II e del Regno delle Due Sicilie, i tempi degli emiri arabi e delle colonie greche. I tempi in cui questa terra era l’atlante da esplorare e lo spazio per innovare.
In questi giorni – in tante città – si assiste a fenomeni preoccupanti. Macchine incendiate, sparatorie, rapine, incendi di preparazione a scavi archeologici clandestini, negozi che chiudono, strade abbandonate, dissesti finanziari di aziende e comuni, spread in salita e in sottofondo la musichetta dell’estate.
In parlamento alcune voci continuano a declamare poesie e sonetti – urlando e sventolando vecchie bandiere – con l’unico scopo possibile: cancellare le ultime tracce delle ideologie del ‘900. Se vanno avanti così li troveremo presto nei libri di storia alla voce “c’erano”. In pratica sembra che non abbiano capito che questo Paese è malato, dilaniato, esasperato da burocrazie sempre più opprimenti, che si propongono come semplificazione di qualcosa, ma di fatto sono il contrario.
Torniamo alle città. torniamo alla dimensione locale. Stessa filosofia di cui sopra. Quanti imprenditori, cittadini, giovani, creativi, volenterosi sono messi nelle condizioni di creare lavoro? Cosa può fare un’amministrazione pubblica per rendere competitivo un territorio? Quali condizioni devono essere soddisfatte per trattenere le nostre più preziose risorse umane?.
La prima cosa è invertire un paradigma obsoleto. Forse c’è persino qualcosa di teologico dietro questa criticità sociale. Siamo cresciuti – un po tutti – con la cultura di pregare i “santi” per avere la grazia. Nei paesi “calvinisti” questa abitudine è meno presente. Preghiamo – i potenti – per avere qualche agevolazione. Al contrario dovremmo averla indipendentemente dal “santo” di turno. Risolvere le criticità burocratiche deve essere un dovere della pubblica amministrazione e non un favore per pochi. Se, tra il desiderio di un’iniziativa imprenditoriale (privata) e il tempo che ci vuole per realizzarla (autorizzazioni pubbliche) è tanto, il risultato è che il tessuto produttivo si atrofizza, si deprime e muore.
Dopo “muoviti fermo”, adesso abbiamo “lascia stare”. Espressioni che fotografa la povertà culturale di una comunità. Lo SVIMEZ rappresenta una realtà drammatica, che non sostiene lo sviluppo anche se questa terra ha risorse inestimabili. La cultura, la campagna, i monumenti, il paesaggio e perché no? Le risorse energetiche: dal gas al sole, dai rifiuti al mare.
Ma serve un cambio di passo e forse anche un cambio culturale negli apparati istituzionali delle Pubblica Amministrazione. Magari per un paio di anni le risorse umane amministrative (impiegati regionali, provinciali e comunali) del sud vanno a lavorare al nord, invertendosi con i colleghi. Così, una specie di viaggio di formazione, più che tecnico diciamo culturale. Magari invece che con i colleghi del nord si potrebbe fare cambio con i paesi del nord Europa. E vediamo se i nostri giovani scappano ancora?
Pianificare, programmare in termini di rete, di sistema. Incentivare, semplificare (veramente), incubare, sostenere, ascoltare e dare le opportunità a tutti e non solo ai devoti dei “santi”. Si perché questa cosa è quella più drammatica. Ragionare, progettare (non l’orticello ma l’intero campo), condividere, partecipare con competenza e professionalità.
Rimettere al centro l’idea. L’iniziativa (utile per tutti e non per pochi). Essere innovatori, sognatori, poeti e filosofi. Perché se quello che vediamo, sotto gli occhi di tutti, è frutto del pragmatismo e della tradizione, allora qualcosa non ha funzionato.
Molti propongono il cambiamento, cioè il cambiamento del “santo” e non il cambiamento culturale. E’ necessaria una visione più “calvinista” che mette al centro il lavoro e il suo valore. Il merito e la creatività. La produzione e l’eticità. “Aiutati che dio ti aiuta”. Ecco, vorrei che dio (la pubblica amministrazione e le istituzioni preposte) mi aiutassi a prescindere dalla mia confessione, sempre.
In questo momento “sento solo canzonette” estive e di un vecchio repertorio. Interpretate da nuovi personaggi come nelle cover musicali, ma pur sempre vecchie canzonette. In questo clima aspro, dove covano i rancori (anche quelli etnici), dove la colpa è del diverso o dello straniero, dove per coprire le nostre mancanze alziamo il volume e basta, dove chi perde vince o aspetta il suo turno, mentre chi vince spera nell’eternità, serve un cambiamento di sostanza, culturale e morale. Zapatero (leader socialista), quando ha perso è scomparso dalla scena politica ed oggi a guidare la Spagna c’è un giovane primo ministro socialista, non vecchie minestre riscaldate. Magari qualcuno stavolta capisce e non fa finta di nulla. Prima che dalle nostre città andiamo tutti via. Perché non dobbiamo avere vergogna a dirlo. Siamo sotto attacco: dalla superficialità, dal sessismo, dell’incompetenza, dalla disperazione, dalle false promesse e dalla furberia di tanti che, potendo fare e dire, si girano dall’altra parte. Tanto tutto cambia per non cambiare nulla e l’ultimo chiude la porta.