Stamattina, durante quella fase critica che prelude alla piena consapevolezza di se, ho posato il mio sguardo all’orizzonte. Prima una porta, dopo una sedia, un cuscino, la ringhiera, l’edera, il muro, la casa, il traliccio dell’Enel, la strada e la collina, fino a perdermi nell’azzurro terso del cielo. Un orizzonte minimo e senza pretese; eppure basta questo per proiettarci verso una condizione di rassicurante felicità.
L’orizzonte è il tema di questo racconto. La necessità di viverlo costantemente, con il nostro sguardo, con la nostra immaginazione; per costruire sogni, mappe, direzioni, viaggi e sentirci sempre parte di questo cosmo.
L’orizzonte è una linea, un fondale, una scena, un quadro. E’ portatore di pace, di serenità oppure di mistero, perché non ci dice mai cosa c’è oltre il suo confine. Ha scatenato la fantasia di artisti e viaggiatori. Oggetto d’interesse di matematici, fisici e geografi. Quando crediamo di averlo raggiunto, ci propone ancora una volta un orizzonte nuovo. Come tutte le volte che crediamo di aver raggiunto l’arcobaleno (un orizzonte magico e colorato).
Leonardo da Vinci, lo ha esplorato, indagato fino a capirlo. In ogni opera del Rinascimento, l’orizzonte è il vero protagonista. Morbido, aspro, etereo, simbolico, narratore di leggende, custode di segreti; si svela attraverso una finestra, un varco tra cipressi e cedri; appare lontano eppure ha la capacità di illuminare la scena. Dalla Vergine delle Rocce (Museo del Louvre, 1486) all’ Ultima Cena (chiesa di Santa Maria delle Grazie, 1498), è un tributo all’orizzonte. E’ quel luogo dove si insinuano le nostre speranze, i nostri desideri più nascosti. E’ il luogo dove vorremo essere, che vorremo esplorare.
Picasso, nella Guernica (Museo Reina Sofía, 1937) nega l’orizzonte. Impedisce alla sguardo di sprofondare oltre il muro della stanza, anche se colloca una piccola finestra in alto, come se volesse indicare una possibile via d’uscita, che comunque nega l’orizzonte.
Quante volte mi sono perso a guardare il viandante sul mare di nebbia (Hamburger Kunsthalle, 1818) o Monaco in riva al mare (Alte Nationalgalerie, 1810) di Caspar David Friedrich. Una tempesta di emozioni romantiche che culmina con la consapevolezza dell’infinito. Luogo della ricerca di sè e del senso del “divino”.
L’orizzonte – attraverso la prospettiva di Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti – è la linea fondatrice di nuovi paesaggi: urbis et orbis. Punto d’incontro tra la terra e il cielo, tra il divino e l’umano. Una teologia dell’incontro tra fisico e metafisico. Il primo segno su un foglio di carta, un dito che indica qualcosa, un punto lontano sullo schermo, la meta di un viaggio.
Quando ho avuto la possibilità di insegnare in una casa circondariale, tra le tante disperazioni dell’uomo c’era quella della privazione dell’orizzonte. Forse la punizione più grande, la privazione più severa. Un muro grigio, finito, concluso era l’orizzonte negato. Un ospite di quella casa delle sofferenze mi disse che per non morire dentro, costruiva una mappa dell’orizzonte attraverso i suoni oltre il muro; pertanto “guardava” con la mente il prato oltre, le pecore, il campanile, la fontana, gli alberi e il trattore che scavava la terra. Era un orizzonte della mente. E quando si poteva uscire per un istante si perdeva il senso dello spazio fino a provare dolore. Ho capito allora il senso del carcere: privazione della prospettiva e dell’orizzonte che ci rende liberi.
Un portico, una finestra, una vetrata ci portano oltre. Proietta le nostre pulsazioni verso il paesaggio. Rassicura la nostra esistenza. Crea un collegamento tra l’intimità della nostra casa e il mondo intorno a noi. Tutta l’architettura si confronta con queste categorie dello spazio e ogni progetto contiene un dispositivo – funzionale e simbolico – che sottolinea il desiderio di orizzonte, persino il giardino pantesco o l’hortus conclusus (recinti per definizione) propongono un orizzonte celeste, una via di fuga allo sguardo.
Senza questa visione, questa possibilità – anche solo allegorica – la nostra esistenza sarebbe vuota e angosciosa. Linea orizzontale (terra/mare), linea verticale (torre/faro). Due elementi che incrociandosi determinano l’ortogonalità come allegoria della dimensione umana, metafora dell’artificio, del costruire. Negli schizzi di progetto, nelle intenzioni dell’architetto, nella misura dello spazio, nella genesi dei luoghi si condensa l’idea di orizzonte come elemento primordiale e fondativo, in cui si fissa un’asta verticale: una torre, un obelisco, una bandiera. Poi un muro che si buca, si scava, si modella per creare un orizzonte speciale, intenzionalmente.
Spesso chiudiamo gli spazi, realizziamo recinti dentro i quali ci chiudiamo, proteggiamo le nostre vite, mettendo in cassaforte le nostre anime.
Santa Barbara, (così si racconta) chiese agli architetti (che per questo vengono da Lei protetta) di aprire altre due bucature nella sua torre in cui era prigioniera, per simboleggiare la “trinità: forse voleva solo dire che bisogna creare nuovi orizzonti per essere felice. Ora ritorno a guardare dalla mia vetrata e capisco che la felicità è la possibilità di guardare oltre, verso la collina, verso un paesaggio di case tutte rosse, verso un suono di uccelli e alberi sfiorati dal vento – che non vedo ma immagino. Forse per questo sposto la tenda, perché desidero essere libero di guardare il mio orizzonte, oggi.