Poeta, zampognaro e maestro artigiano della pietra lavica: soprattutto adranita innamorato della propria città. Se n’è andato a 83 anni Alfio Sciacca, perla fondamentale della tradizione locale adranita. Un galantuomo nel cui sangue ribolliva un amore smisurato per la propria terra. Nel suo Dna familiare era impressa la passione per l’arte. Suonava la ciaramella, come il fratello Angelo, ma questo non gli bastava: da anni aveva preso a fabbricare bellissime zampogne con le proprie mani. La capacità di tirare fuori da un tronco nodoso un suono celestiale la dice lunga sulla sua arte. Ma la bellezza di quest’uomo – piccolo di statura ma prezioso quanto un pastorello di prima fila nel presepe di Natale – stava nella sua umiltà. Quando a Natale si “esibiva” nella Novena, passando casa per casa per dare un buongiorno di felicità ai bambini che si svegliavano al suono della zampogna, alla porta di chi aveva chiesto i suoi servigi si annunciava come “la ciaramella”.
Chiedendogli regolare autorizzazione, anch’io tra gli appassionati della zampogna per la Novena, avevo preso l’abitudine di piazzare un registratore per “impressionare” la performance del primo giorno. Con un tocco di modernità che legava inconsapevolmente vecchie tradizioni e modernità di comunicazione, inviavo il file musicale ai miei amici per augurare loro un sereno Natale. Il suono della ciaramella di Alfio Sciacca, per anni, ha fatto il giro di mezza Italia commuovendo quanti sanno riconoscere la residua bellezza di un mondo che lentamente se ne va. C’erano, poi, le sue poesie in vernacolo: componimenti dai quali emergeva una profonda spiritualità e un amore sincero per la propria famiglia.
Nelle poesie di Sciacca, aveva scritto il grande poeta e scrittore adranita Cirino Rapisarda, “…vi si gusta il nettare della purezza dei versi”. A Militello Val di Catania nel 1998 gli era stata conferita la Medaglia al merito per la Poesia.
Ora che Alfio Sciacca, adranita degnissimo, ci ha lasciato è doveroso ricordarlo con le sue stesse parole scritte per prendere congedo dalla vita. Si intitola “L’ultima puisia”:
Nun sacciu l’ura e mancu lu mumentu,
quannu sta terra mi tocca lassari,
ma mentri è sanu lu mè sintimentu,
sti quattru paroli li vogghiu stampari.
Di la mè vita ju sugnu cuntentu,
ca riccu d’amici m’ha fattu campari,
e di li mè peccati mi ni pentu,
di frunti a Diu ‘ppi mi giudicari.
Speru c’aju saputu rispittari,
tutti l’amici mei e li parenti,
‘cchi pena sentu duvirimi staccari,
ma contru di la morti sugnu nenti.
Di frunti a idda nun pozzu luttari,
vali ‘ppi tutti e statici attenti,
ju cu sti versi vogghiu ringraziari,
a ccù veni dopu e ccù e prisenti