Oltre 220 udienze, centinaia di testimoni di accusa e difesa, una trasferta persino al Quirinale per sentire il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano e tante polemiche. Si avvia a conclusione il processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. Oggi, dopo cinque anni dalla prima udienza, i giudici della Corte d’assise sono entrati in Camera di consiglio per emettere la sentenza prevista per la fine della settimana. Anche se ogni ipotesi è aperta. E’ un fatto che i giudici popolari, sette in tutto, sono entrati in Camera di consiglio con tanto di borsoni, trolley, beauty case. Qualcuno, prima dell’inizio dell’aula si lascia andare a una battuta: “Le mie prigioni…”. Altri, preferiscono il silenzio. Ma l’ora x sta per avvicinarsi. Era il 27 maggio 2013, quando, davanti all’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo, la stessa di oggi, si presentarono i pm dell’accusa, compreso Antonio Ingroia, che allora era Procuratore aggiunto di Palermo. Ma fu pm solo per poco perché il mese successivo volò in Guatemala per ricoprire un ruolo su incarico dell’Onu. Sul banco degli imputati siedono dieci imputati, quattro sono appartenenti a Cosa Nostra, tra cui il Capo dei capi Salvatore Riina, che nel frattempo è deceduto ma che risulta ancora alla sbarra, e poi Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà. La posizione di Bernardo Provenzano, che nel frattempo è morto, era stata stralciata per motivi di salute. Imputati anche quattro rappresentanti delle istituzioni, cioè Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno, Marcello Dell’Utri, accusati di violenza a Corpo politico, amministrativo o giudiziario. Massimo Ciancimino è invece imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti di Giovanni De Gennaro, mentre Nicola Mancino è accusato di falsa testimonianza. Anche la posizione dell’ex ministro Calogero Mannino e di Bernardo Provenzano, nel frattempo deceduto, furono stralciate. La Procura di Palermo, al termine della requisitoria, aveva chiesto la condanna a 15 anni di carcere per l’ex capo del Ros Mario Mori. Chiesti rispettivamente 12 anni e 12 anni per gli altri due ufficiali dell’Arma accusati: Antonio Subranni, prima di Mori al comando del Raggruppamento Speciale dei carabinieri, e Giuseppe De Donno. Dodici anni anche per Marcello Dell’Utri. Per l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di aver detto il falso, la procura chiede una condanna a 6 anni. Una condanna viene chiesta anche per i mafiosi che vollero minacciare lo Stato a suon di bombe: 16 anni per Leoluca Bagarella, 12 per Antonino Cinà. Per Massimo Ciancimino, accusato di calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni Di Gennaro, la procura chiede 5 anni. Per l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, viene invece sollecitato il “non doversi procedere per intervenuta prescrizione”. Stessa richiesta per il pentito Giovanni Brusca.
Tra le parti civili spiccano la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Comune di Palermo, il centro Pio La Torre. Secondo l’accusa, all’inizio degli Anni Novanta ci sarebbe stata una sorta di trattativa tra la mafia e pezzi dello Stato italiano, per raggiungere un accordo sulla fine degli attentati stragisti, in cambio dell’attenuazione delle misure detentive. Tutto partirebbe all’indomani della sentenza del Maxi-processo del gennaio 1992, quando Cosa Nostra decise di eliminare gli amici ‘traditori’ e i grandi nemici. Così, nel giro di pochi mesi furono uccisi l’eurodeputato Dc Salvo Lima, ma anche i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma per i magistrati, oltre alla vendetta, l’obiettivo di Cosa Nostra era anche quello di ricattare lo Stato. Così furono organizzati una serie di attentati per mettere in ginocchio le istituzioni. Secondo l’accusa, la trattativa sarebbe proseguita anche oltre l’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993. L’impianto accusatorio si basa, tra l’altro, sulle testimonianze di Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, e Giovanni Brusca. Ciancimino, nel corso di una decina di udienze, più volte rinviate per lo stato di salute precario dell’imputato, ha ricostruito tutti gli incontri che sarebbero avvenuti fra i Carabinieri e il padre. Mentre Giovanni Brusca è il primo a parlare del cosiddetto «papello», cioè la lista di richieste di Totò Riina allo Stato. E’ ancora Brusca ad avere indicato l’ex Presidente del Senato Nicola Mancino come terminale ultimo degli accordi.
MANCINO: “LA MIA STORIA DIMOSTRA LA LOTTA ALLA MAFIA”
“Durante il mio mandato proposi e il Consiglio dei ministri approvò lo scioglimento di 54 consigli comunali. Il ‘morbido’ Mancino! La mia lotta alla criminalità organizzata, onorevole giudici, è dimostrata dalla mia storia, dagli scritti e dagli articoli di giornale da me depositati. La mia volontà è stata sempre contro qualsiasi attenuazione degli strumenti di repressione del fenomeno mafioso”. Così, rendendo dichiarazioni spontanee, l’ex Presidente del Senato Nicola Mancino prima che la Corte d’assise del processo sulla trattativa Stato-mafia entrasse in camera di consiglio.