Mujer, storie di donne, dee e “processioni”

Lentamente scorre un mare di uomini e donne, lungo le tracce del sentiero sacro. Una donna, ammantata di luce e di lacrime salate, cerca un figlio. Svela agli uomini, la mappa urbana della processione, che scava tra le pietre, un solco profondo: di devozione e trascendenza. Una liturgia che si perde nel tempo. Suoni, luci, penombre. Un silenzio che scorre fin dentro l’anima. Una donna che traccia a terra un segno del cielo. Una madre di carne e di Dio. Una madre che vive il pendolarismo perpetuo, tra l’amore terreno e l’amore divino, come la Venere di Botticelli nella sua Primavera. Perché tutto si compia. Non è un rito della morte ma della vita.

La madonna, scende dalla sua acropoli, per cercare nel mondo suo figlio. Ucciso, umiliato e scomparso. Lo cerca in città, tra le case, lungo le vie e si ferma nelle piazze, nelle chiese e davanti alle residenze della nobiltà, ai potenti del tempo (che a lei s’inchinano): notai, canonici, banchieri, nobili ecc., riconoscendo simbolicamente la gerarchia urbana, sociale ed economica. Il percorso sacro è la metafora della vita. Un segno riassuntivo del pellegrinaggio dell’uomo sulla terra. Salite, discese, linee dritte e sinuose. Slarghi e strettoie sono i tanti aspetti della città ma anche i tanti aspetti della vita. (cit. da: Barbagiovanni G, Finocchiaro F., Virgillito G.  – Pascham. Percorsi urbani della pasqua a Paternò – Le nove Muse – 2003 Catania).

Come poteva essere diversamente? Dall’acropoli di Venere – dea dell’amore e della bellezza – scende una Donna che annuncia la vita. Ma le donne – dell’antica città di Ibla Major – che accompagnano la processione, sono di nero vestite. Lo sguardo sottomesso e l’espressione drammatica dei volti, come in una tragedia greca. La bellezza della loro danza è tutta nel ritmo dei passi, nelle soste lungo il viaggio urbano. Drappeggi di vesti, come l’Afrodite di Fidia quella sul frontone del Partenone di Atene. Drappeggi di vesti, che il vento fa vibrare ritmicamente ad ogni passo. In sottofondo la banda suona una musica carica di pathos che ti entra nell’anima fino a bagnare di sale, la pelle. Similmente avviene a Barcellona, nella Spagna dei Moncada. Ma in quella terra, le donne sono “guappe”. Identica la liturgia ma diverso è lo sguardo di quelle sacerdotesse dal manto nero che trasudano di sensualità e orgoglio. Donne che segnano la memoria degli uomini con occhi di carne e di cielo.

Oltre la dimensione cristiana, oltre il ricordo delle processioni barocche, oltre ogni evidente significato teologico, c’è anche l’allegoria della primavera, della rinascita della terra, della festa di Venere, portatrice di bellezza e rigenerazione. Venere e venustas hanno la stessa radice etimologica. Bellezza femminile. L’acropoli di Ibla Major è il paesaggio culturale, dentro il quale si sono stratificati i segni di questa processione pasquale. Ma venere è bellezza, la bellezza della natura che ci riporta al senso del divino. Mediatrice tra la terra e il cielo. Tra l’uomo e Dio. In questo senso c’è continuità culturale tra la madre terra – intesa come il genius loci dell’acropoli/neck (vedi la venere di Willendorf) – la dea Venere (vedi il templi ad essa dedicati) e Maria, la Madre di Cristo. Teologia della rinascita a partire dalla terra. Non sarà un caso che “Il Pervigilium Veneris (La veglia di Venere) è un componimento poetico dedicato a Venere dell’età imperiale romana – scritto probabilmente sull’acropoli. Un carme di autore anonimo, in cui viene celebrata la figura di Venere quale signora della vita e della rinascita.”

Il maestro d’Inessa, disegnava spesso un bimbo con un palloncino. Questa immagine mi ha fatto sempre pensare ad un’allegoria. Il bimbo è l’umanità, il palloncino è il senso del divino e il filo è l’arte che lega le due cose. Qualche volta i miei studenti mi chiedono, il perché l’arte – che è connessione tra terra e cielo, strumento per rappresentare la “Natura” (onnipresente e onnipotente) – sia concentrata a rappresentare la donna in tutta la sua bellezza. Nel tempo, dalla preistoria ad oggi. Le veneri che hanno attraversato il tempo passando per Fidia, Giorgione, Tiziano, Goya, Boucher, Canova, Manet, Matisse, Picasso ecc. hanno raccontato poeticamente il senso profondo della bellezza femminile come strumento di elevazione al divino – come la Beatrice di Dante, che “eleva” verso la luce. Vitruvio ci descrive la Firmitas, l’Utilitas e la Venustas e Domenico Amoroso (archeologo di Caltagirone), nel descrivere la ceramica greca – coerente ai principi vitruviani – si sofferma sulla funzione della venustas/venere: è l’evocazione del legame tra gli uomini e gli dei. Quindi la donna è mediatrice, portatrice di bellezza e fecondità. “Nel caso del venerdì santo, cioè della Pietà, c’è il legame fortissimo alla madre-vita, ma anche terra e cielo. L’uomo però non è fuori, bensì unito, abbracciato, accudito” (Cit. Mons. Nino Raspanti, Vescovo). Forse tra queste parole, c’è una possibile risposta ai miei studenti di storia dell’arte.

Mi piace pensare alla donna come una poesia. Un carme di sensuale bellezza. Compagna di viaggio verso il divino. A Lei, Dio ha dedicato uno spazio speciale, nella narrazione della creazione. Come la poesia è sintesi di bellezza e strumento di narrazione per gli dei, così la donna è l’incarnazione fisica e metafisica del legame tra il mondo terreno e quello divino. Spazio per la rigenerazione. Quante donne hanno fatto la storia? Qualche volte sono persino perseguitate (discriminazioni, femminicidi, pregiudizi, mobbing, abusi, molestie, emarginazioni… ecc.). Un soffio di vento, un battito d’ali, il respiro del mondo. E’ forse anche questo il significato del venerdì santo? La venustas è “perfezione di bellezza (particolarmente femminile), non solo nella ideale regolarità delle forme e dei lineamenti ma anche nella grazia e nella leggiadria dei movimenti.”

La Venere Callipigia, che ho incontrato innumerevoli volte rappresenta questa sintesi poetica, questa intima teologia della bellezza che in ogni tempo e in ogni luogo, ripropone la centralità della donna nella storia dell’umanità. Il venerdì santo, nella città di Ibla Major, (con il dovuto rispetto) è anche questo. Una “Pietà” carica di pathos e di bellezza divina. E mi ritorna in mente, stat rosa pristina nomine, nomina nude tenemus (la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi) che chiude quel capolavoro di Umberto Eco che è il nome della rosa.

 

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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