La febbre del sabato sera e le notti insonni ad aspettare i figli

Primo o poi tocca a tutti, di passare la notte ad aspettare – tra mille pensieri – il rientro di quel contro esodo di ragazzi e ragazze, che invade la notte e le città. Negli anni ’70 si chiamava “la febbre del sabato sera” (Saturday Night Fever) e Tony Manero (il mitico John Travolta) era l’eroe che rappresentava un’intera generazione.

Non c’era certo il cellulare e nemmeno i social, quindi un isolamento totale e l’attesa del rientro era spesso un incubo. Un esercito di giovani – in effetti non erano tanti – scappava dalle piccole città, dalle periferie più profonde, verso i “santuari” della vita notturna metropolitana, dove poteva succedere di tutto – nel bene e nel male, spesso in luoghi dove si parlava di politica e di arte. Attese interminabili, affacciati ai balconi: in attesa di un rombo di motore, di un suono di passi o di una voce; che ci facesse ritrovare la morbidezza di un cuscino perduto.

Sono passati già quarant’anni – dalla prima volta che in Italia appariva Goldrake UFO Robot e dall’omicidio di Aldo Moro – e le nottate sui balconi – ad aspettare – sono rimaste le stesse. Solo che stavolta sono i figli di quel tempo – aiutati dagli Smartphone – ad aspettare, increduli di cosa avessero provato i lori genitori nelle notti del sabato sera.

Ma cosa fanno i giovani di oggi? Dove vanno il sabato sera, e a fare cosa? Nel tempo dei social, dei selfie, della realtà virtuale e della modernità liquida (Zygmunt Bauman) sono ancora portatori di felicità? Esiste ancora una relazione tra spazio collettivo e identità? Spiega Giancarlo Bova,Nel passato, la società moderna, a lungo combattuta tra il principio del piacere e il principio di realtà, ha scelto il secondo, cioè l’ordine e la regolamentazione: per ottenere la sicurezza, ha rinunciato alla libertà. Oggi, invece, – dice Bauman – avviene il contrario: il principio del piacere(e della libertà) regna sovrano. Ma in entrambi i casi, oggi come ieri , la felicità non c’è. Al suo posto, c’è incertezza, insicurezza, ansia, angoscia. È il tempo della crisi dell’identità sociale e personale, della “Voglia di comunità”, della “globalizzazione”. Quest’ultima esprime il “nuovo disordine mondiale”(Jowitt) , confusione, disorientamento … Nella modernità attuale tutto è permeato dalla “liquidità”, che è la caratteristica di base dei liquidi fluidi, che non possono mantenere una forma perché non hanno una coesione interna. Il mondo di oggi non ha né la struttura, né la solidità di un tempo. Le nuove forme di produzione e di rapporti umani sono anonime, liquide, mutevoli, effimeri. La società, sempre più sotto assedio è raffigurata da un simbolico reticolato- palizzata, ha come unico protagonista il Grande Fratello, il più duro del gruppo e senza scrupoli.”

Nelle città era facile incontrarsi, in precisi luoghi – fisici e simbolici – che diventavano riconoscibili e identitari di gruppi omogenei di giovani – per classe sociale e culturale. A Catania c’erano i “monfiani” di via Monfalcone e i “mammoriani” di San Cristoforo; a Paternò gli incontri, erano alla Formarredo per i monfiani locali e per gli altri, qualche metro più in la. Ogni luogo era rappresentativo di qualcosa. Non serviva il cellulare; si sapeva che ci saremo visti in quel posto, dove ci si vedeva sempre. Scherzi, risate, amori e le grandi tragedie dell’adolescenza, fino a tarda sera. Era persino facile incontrare o cercare qualcuno – e qualche padre controllava a distanza con discrezione. Certo i problemi non mancavano. Poi c’erano le parrocchie, gli oratori, le piazzette dove si giocava a pallone – per i più piccoli – e sempre con un preciso legame tra giovani e luoghi. Poi c’era la rete di relazioni trasversali – indotta dalla scuola – tra i vari gruppi e quindi tra i vari luoghi dello svago. Era una piccola rete “fluida” che generava integrazione tra le parti con la creazione di band, di squadre di calcio, e di impegni sociali per i più deboli; quando andava bene c’era persino l’impegno al teatro (a Paternò c’era quello di Turi Pappalardo).

Oggi sembra che i giovani non hanno altra scelta se non quella di andare nelle discoteche di Catania. Meta preferita dai giovani della provincia. Come un’emorragia, si svuotano i piccoli paesi per ingolfare la “metropolis” (come quella di Fritz Lang). A sentire qualcuno di loro, il sabato sera ci si”sballa”. Si sbrocca, ci si tuffa nella bolgia della discoteca, per rompere quella monotonia che asfissia la loro esistenza. Alcol, erba e musica a palla. (non sempre e non per tutti). E’ il manifesto della loro emancipazione. Fatti fuori i cantautori e la musica rock, rimane – messi da parte le canzoni romantiche e impegnate – un ritmo musicale ossessivo, che fa sbroccare verso il disimpegno e l’apatia.

Tutti in un unico spazio: la discoteca. Perdono di significato le piazze, le strade e i vicoli della periferia a tutto a vantaggio di vecchi capannoni riconvertiti in luoghi del divertimento. E’ il grido di allarme di un malessere sommerso e silenzioso, che trova la sua espressione più fisica, nella perdita di valore dello spazio collettivo. Esso, rimane abbandonato a se stesso e privato di quelle attività che lo rendevano luogho della comunità e della Polis.

Credo che le comunità locali – specie quelle periferiche – debbano riflettere su queste dinamiche, afferenti alla rigenerazione dello spazio collettivo e sulle implicazioni rispetto all’evoluzione culturale delle nuove generazioni. La piazza è il baricentro di questo tema. Dovrebbe essere una priorità nella scelta delle politiche giovanili. E’ necessario riconquistare il senso dell’identità dei luoghi. Non si tratta di contrastare l’esodo del sabato sera, ma di offrire alternative con l’incentivazione di concerti, mostre ed eventi per i giovani.

L’arte, è lo strumento più potente per educare alla bellezza e trasformare i nuovi “non luoghi” in spazi collettivi riconosciuti. Persino l’auto costruzione di spazi residuali o relitti urbani, a cura di giovani artisti è una strategia possibile da incentivare come prassi per la trasformazione della città.

Questa gioventù ha tanta energia, tanta voglia di raccontarsi – con strumenti nuovi e originali – ma dobbiamo offrirgli una tela su cui disegnare il loro mondo. Abbandonarla – per comodità e pigrizia – non è utile alla nostra sopravvivenza. Non è una gioventù bruciata, è un vulcano a cui abbiamo tolto l’alveo dentro il quale scorrere. Bisogna ricostruire le occasioni per l’incontro, per esercitare la progettualità, per fare la politica, per dibattere, per contaminarsi sul piano culturale. Sento spesso l’apatia di taluni giovani, che scappano dalla realtà, perché traditi dalla nostra stessa società. La perdita dei valori, delle ideologie e della voglia di far battaglia sul piano politico, questa è la criticità che emerge. Come se fosse morta l’agorà. Tutti dietro un PC.

Ripartiamo dalle piazze e dalla rete tra esse. Ripartiamo dall’impegno per l’arte e la città, le nostre città.

Contro i “supermercati” del divertimento metropolitano per il raggiungimento di un’ecologia culturale.

Non è nostalgia ma la consapevolezza che si può “lasciare questo mondo, un po’ meglio di quanto non l’abbiamo trovato” (ultimo messaggio di Baden-Powell) e dobbiamo farlo.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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