La scena, dopo ogni marachella, è la medesima: mano destra in bocca, sguardo arcigno , voce stridula e solita esclamazione “ah, cosa fitusa! “. La risposta non tarda mai ad arrivare, almeno nel pensiero. Meglio “tinti ” che “nzinuti “! Perchè tutte le offese si accettano, meno quelle che si riferivano all’elasticità mentale. E pazienza se nessuno ha mai letto L’arte di insultare di Arthur Schopenhauer. “Dondiru“, “lollu“, “luccutu” sono marchi di fabbrica, altro che semplici insulti brontesi. Infamie, quelle, che – è bene ribadirlo – mutano in base al comportamento. Se, infatti, ci piangi sopra, sei proprio “babbu” (variabile rafforzativa ed energetica: “babbu di l’ova”). Se, invece, ci ridi a crepapelle, completamente “sciolleru“. Ma se fai spallucce, accettando, allora sei “bracamé ” o, per dirla all’adranita, “caddaruzzuni“. Se, poi, assieme all’insulto vieni pure malmenato, da Bronte a Licodia passando per Adrano e arrivando a Paternò, sei rispettivamente “brigghiolu” , “bagghiolu” , “mammaluccu“, “tupparruni ” o, per essere ancora più precisi, “toppula e risu“.
Anche l’abbigliamento ha la sua parte di responsabilità: puoi, sì, essere “’ntrusciato” e ” ‘nfrasciamato ” ma mai onta peggiore viene mossa dal sembrare per movenze “cianciana” o per accoppiamenti un “pipiòlo“. E se, talvolta, fare i “‘ntrunati ” può essere un’arte sottile per non ricordare o non sentire ed essere “strolicu” era colpa grave dalla nascita, diventare “curnutu“, pensate un po’, a cosa potrebbe ascriversi?