Avevo 5 anni forse meno. I ricordi più vividi e preziosi che ho sono sicuramente legati all’aranceto che la famiglia di mio padre aveva ai piedi dell’Etna da generazioni. Le memorie si mischiano un po’ con le immagini giallognole delle fotografie di quel tempo, ma ricordo esattamente la polvere della terra marrone che sollevavo con le mie scarpe da ginnastica di Barbie (ahimè, anche una signora ha i suoi scheletri nell’armadio). Non mi capitava mai nella mia città di camminare in natura. Ricordo l’erba che mi sfiorava i polpacci, sempre troppo alta per vedere l’orizzonte, ma profumatissima di finocchietto selvatico, menta e lavanda. Profumo di erba, di quel cielo azzurro, di quelle pietre bianchissime e persino del frinire costante degli insetti in quella calura. La mia tenuta da tempo libero consisteva in un paio di pantaloncini corti e una camicetta che poi regolarmente finiva chissà dove, ragione per la quale in quasi tutte le foto dell’epoca sfoggiavo un’elegantissima mise in canottiera bianca. I graffi e i lividi che avrei contato la sera sulle mia gambe avrebbero rappresentato il mio bottino di soddisfazioni in barba all’educazione da signorina per bene che poi avrebbe distinto il mio ruolo futuro. Dunque, quelle scorribande dietro l’ombra di mio padre e di mia zia attraverso i campi erano avventure meravigliose, che si trasformavano in una vera e propria macchina del tempo tra le memorie della nostra famiglia. Così, mio padre all’inizio di ogni passeggiata mi consegnava un bastone che aveva sempre la cura di adattare alla mia altezza (e che alla fine della giornata avrebbe intagliato con cura dichiarando soddisfatto: “Ecco, ora questo è il bastone della Titty!”), e sotto il caldo torrido dell’agosto siciliano ci perdevamo per interi pomeriggi tra le campagne, i profumi, i colori, i ricordi di quella terra. Al nostro ritorno ricordo nonno Peppino attenderci al fresco dell’enorme Eucalipto che troneggiava oltre una splendida seduta di pietra costruita dal mio bisnonno. Lo ricordo con le mani in tasca, il suo sorriso beffardo, il bastone, e con quella postura di bambino terribile che conservava a dispetto dell’età e della vita. Sapevo che avrebbe staccato un’arancia ancora con la foglia, dall’albero più vicino. Ricordo il profumo di zagara come fosse adesso. Aveva mani noccolute e sporche di terra, ma anche gesti antichi e consapevoli, era un tutt’uno con le sua piante quasi si riconoscessero dall’odore. Mi faceva sedere accanto a lui sotto l’Eucalipto. La pietra era calda, in alcuni punti assolati persino bollente. E mentre mia madre cinguettava che c’era troppo sole e che la bambina doveva bere e che mio padre era stato un incosciente a farmi stare fuori fino a quell’ora…io ero totalmente rapita dalla magia delle mani di quel vecchio che vedevo solo due volte l’anno. E come in tutte le magie, tra noi calava il silenzio e restavo immobile totalmente rapita dai suoi gesti. Accarezzava l’arancia, quasi a cercarne l’anima, poi l’ammorbidiva tra i palmi ruvidi e infine tirava fuori un coltellino e praticava un foro nel punto che solo lui sapeva. Poi me la offriva dicendomi: “Bevi, chistu è zucchero-je-miele”. Ricordo il calore di quel frutto morbido e vellutato al tatto, avvicinavo le labbra al foro e mi lasciavo inebriare da quel sapore divino. “Zucchero-je-miele!” come diceva lui. “Mungi gioia, mungi. Chista è ‘a sucalora!”. No, caro nonno. Era il paradiso.