Mettiamola così : ognuno ha avuto il proprio. Appioppato dalla nascita, scelto con celestiale tenerezza e dolcezza dai nonni o dai parenti più prossimi e pronunciato all’inverosimile fino a che coscienza e raziocinio non li abbiano nuovamente illuminati, le mura domestiche non abbiano finalmente risposto circa il nonsense di certi nomignoli e le diciture di interi album fotografici non abbiano deciso di cancellarsi per la vergogna. Perché se è vero che con il nome si nasce, per il vezzeggiativo si crepa.
D’accordo, i mille modi di chiamare gli affetti più cari raccontano storie, ricordano aneddoti e svelano le mille facce dell’amore.
Ma come spiegare la naturale, spontanea, incontrollata e spesso illogica genesi di un vezzeggiativo a fronte di un patrimonio linguistico immenso?
Voglio dire, non si disquisisce su aggettivi tanto abusati quanto ascoltati, non si sindaca su termini orecchiabili e quindi assimilabili, non si critica lo storpiamento e o allungamento del proprio nome.
Qui si parla di lessico famigliare, signore e signori.
Genesi primordiale di termini tanto astrusi quanto bizzarri.
Come potrei mai tradurre “tiritolli“, – termine adranita per eccellenza – usato da Nonno Peppino per mettere ordine ad un gruppo scalmanato di nipoti di fronte alla distribuzione della consueta macedonia domenicale? E pur non volendo infierire sul termine brontese “cuorici” o sull’ancor più sdolcinato ” zuccheru e meli “, cosa potrei, invece, arguire sul licodiese “cicitta” o sul paternese “curinedda” ?
Solo il tempo, ma non la memoria, archivia i vezzeggiativi, li rinchiude nel cassetto dei ricordi e li rimpiazza con quelli di nuovo conio, frutto della fantasia dell’amica del cuore, dell’ arguzia del compagno di banco o della dolcezza del fidanzato di turno. Con quest’ ultimo, poi, interi capitoli zoologici si dischiudono dinnanzi ai nostri occhi, bollate per “colombine” o ” vipere” ed elogiate tutt’ al più come “scimmie” o ” ranocchie”. E non pensate che le “polpettine” o le “ciciolene” stiano messe meglio, cotte e rosolate come sono nell’olio del loro stesso amor.
Altro che trottolino amoroso, tesoruccio o amorino! Quelle, badate bene, sono parole arcaiche ma diaboliche, usate – con annessa modulazione del tono di voce e gestualità tipica – da generazioni intere di uomini per specifici scopi e determinati obiettivi. Gli stessi che, a onor del vero, si perseguono negli scambi mai amichevoli di liketra donzelle, pardon instagirls.
A colpi di babe, honey e dolcezza riscrivono le regole della comunicazione basilare, ribaltando talvolta la logica stessa della netiquette che vorrebbe gentilezza e garbo quando in realtà si dissemina zizzania e logica clienterale.
Ma ora ditemi, quanto era bellosciatu mio quando era sussurato in privato?