Ci sono luoghi, che rimangono impressi nella nostra memoria, indelebili tracce di suoni, di odori e di liturgie antiche. Paesaggi dell’eterotopia, fissati in un tempo e in uno spazio, permangono tra gli interstizi della città nuova, quella città che li ha inghiottiti poco a poco. Scomparsi gli uomini, scomparse le pietre, ridondano i nomi degli eroi e dei luoghi, che hanno fatto la storia del ‘900 in un piccolo paese di antico lignaggio che stava per diventare città. Paternò.
La fabbrica di mattoni, di Ciccittu u stazzunaruera collocata nel margine urbano, verso la campagna. In quella parte di paese – a est, lungo la strada che portava al convento di San Vito – che accoglieva canneti, acque, botteghe e la nuova ferrovia che circondava l’Etna, la montagna di fuoco. Era uno luogo che andava oltre il concetto di periferia, era lo spazio operoso e vivo che accoglieva i nuovi pionieri, giovani e intraprendenti. Era u chianu e canne (il piano delle canne). Una porzione di terra, che nascondeva una storia antica, di greci e di monaci. Ricca di limpida acqua e attraversata dal vento. Connessa a ogni cosa: la città, la ferrovia e la strada che porta all’argilla.
Il sogno di quel piccolo uomo, che portava sulle spalle, tutto il peso delle rinunce – che la guerra, la peste e la perdita del padre, avevano reso dure – sembra ingigantire la sua figura. Quest’uomo, piano piano, costruì la sua fabbrica di mattoni e con essa la sua famiglia e la terra intorno a lui diventò fornace di pietra, spianata, pozzo, fabbrica e macchine gigantesche e uomini forgiati dalla fatica e dal sole. Un andare e venire di mezzi chiassosi e stracolmi di argilla e mattoni cotti. Mattoni di ogni forma e coppi e canalette e ogni manufatto per fare altre città, per costruire ferrovie, ponti, cattedrali e case di ogni grandezza. Era il suo quartiere, era la sua fabbrica, era la sua famiglia; che numerosa, lavorava con lui, il patriarca. Ricordo ogni sua espressione, uomo operoso e talentuoso. Costruiva mattoni ma vedo ancora le sue mani intente a fare tavoli, lampadari e le stesse case che poi abitava o vendeva.
Oggi rimane solo l’eco di quel mondo
Poi il tempo divora ogni cosa, ogni rito, ogni luogo. La città inghiottiva la fabbrica, circondandola da ogni lato, fino a costringerla ad andare altrove, perdendo ogni contatto con la gente e nel frattempo il tempo divorava anche gli uomini e le donne di quel mondo. In questo paesaggio – in cui gli equilibri erano ormai sfilacciati – raccolgo i ricordi dei suoi protagonisti: a putia, la casa con le belle ragazze, il falegname, il lavoratore di canne, il cinema all’aperto, la fornace, il giardino pubblico dove vennero seppelliti i morti della guerra. Poi il pozzo con l’acqua fresca che bevevo da piccolo quando venivo da Catania. La passeggiata con il nonno in quel posto magico dove si lavorava l’argilla e le avventure tra i bancali di mattoni, in mezzo al suono assordante delle macchine.
Oggi rimane solo l’eco di quel mondo. Qualche casa è esattamente come l’aveva fatta nonno Ciccio e permangono i racconti del figlio musicista, di quello che dipingeva le tele – disegnando le carcare e di mio padre che andò lontano da quella terra, ma quando tornò, non faceva altro che celebrare quei luoghi con me come se fossero una messa di natale.
La città ha inghiottito la memoria
La città nuova ha divorato i luoghi della produzione, ma non ha colto l’insegnamento che essi offrivano rispetto al desiderio di umanità, di equilibrio tra spazi vuoti e pieni, di misura delle parti, di materia, luce e vegetazione, che gli uomini sentivano come rapporto armonico ed ecologico.
La città nuova non ha inghiottito solo lo spazio fisico ma la sua memoria più profonda. U chianu e canni. Il nome, questo è quello che rimane di una fabbrica, di un pezzo di città produttiva, ma non solo, forse rimangono anche le poesie e i quadri di d’Inessa, le narrazioni orali dei vecchi del quartiere, gli strumenti della produzione ancora conservati e il desiderio di ricordare e narrare ai nuovi figli. Questa è la storia di un piccolo quartiere che era ai margini della città, tra boschi e acque di sorgente, dove un tempo antichi greci e monaci operosi preparavano la terra per il piccolo uomo, Ciccittu e come lui tanti altri – uomini e donne – che hanno vissuto in quella porzione di paesaggio culturale, seguendo una poetica cosmologica, fatta di liturgie urbane con rapporti umani, lenti e profondi.
Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.
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