L’abbiamo chiamata “La Memoria del Cuore” ed è uno spazio dedicato ai luoghi fisici, un club o un bar, e anche agli “uomini non illustri” che a Catania e nei paesi della provincia hanno animato i nostri anni e che adesso non ci sono più. A tenere a battesimo la rubrica è lo scrittore catanese Domenico Trischitta, cantore del quartiere San Berillo di Catania i cui abitanti, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, furono obbligati a trasferirsi nel “Nuovo San Berillo” per favorire un piano di risanamento urbanistico mai ultimato.
Apparve per la prima volta nel quartiere una sera d’estate del 1970, e si sentiva in lontananza la canzone “Eternità” dei Camaleonti. Era la lapa gelateria di Pippo Panecasaro, con la minnulata più buona al mondo, granita alla mandorla con l’immancabile brioscia. Noi ragazzi eravamo più affascinati da questo juke box ambulante che ci portava le novità discografiche più interessanti del momento, non solo i Camaleonti, ma anche “Let it be” dei Beatles e “Samba pa ti” dei Santana. Era la nostra colonna sonora, compresa quella di Pippo, che ci vendeva anche gelati alla nocciola e alla gianduia con una bomboletta spray di metallo che abbelliva la parte superiore con coreografie di panna montata. Quando Panecasaro arrivava, accompagnato dal successo di turno, era una festa, si formavano capannelli di ragazzini che già esibivano delle iconiche zampe d’elefante e stivaletti neri. Ogni anno che passava scandiva evoluzioni e gusti musicali che la lapa di Pippo immancabilmente proponeva, nel ’73 arrivò “Anima mia” dei Cugini di Campagna con quel falsetto ingannevole che ci fece esclamare: “ma chi è, masculu o fimmina?” Poi nel ’79 u gilataru dovette adeguarsi ai gusti del momento, arrivarono i pionieri del neomelodico napoletano, Nino D’Angelo e Carmelo Zappulla, un falso napoletano di Siracusa che ebbe un successo incredibile con “Pover’ammore”. Arrivarono anche i primi morti ammazzati in città, anche nel nostro quartiere, una guerra di mafia terribile senza esclusione di colpi e il volto di Pippo Panecasaro si faceva sempre più triste fin quando un giorno arrivò il figlio al suo posto, il giovane Panecasaro. Ma noi nel frattempo eravamo cresciuti e sognavamo di scappare da quel posto di squallore e morte, anche se quella canzone struggente ci ricordava: “anima mia, torna a casa tua, ti aspetterò dovessi odiare queste mura”.