Rifiutiamo-li. Da Duchamp a “tutto” Zero

riciclo sostenibile

Fontana, 1917 di Marcel Duchamp. Uno dei più famosi ready-made (bell’e fatto) del Dadaismo francese. Duchamp “inviò alla mostra allestita dalla società degli artisti indipendenti di New York, un orinatoio maschile prodotto in serie, che ribaltò appoggiandolo sulla parte più larga” – firmandolo con lo pseudonimo R. Mutt.

L’artista dadaista, “sceglieva gli oggetti sulla base del principio di “indifferenza visiva”: ciò che contava non era la storia dell’oggetto, ma il fatto che esso venisse privato del suo normale valore d’uso, per assumerne uno diverso. I titoli sottolineavano questa piccola rivoluzione.” (cit. G. Dorfles)

Dobbiamo proprio a M. Duchamp, la visione moderna del concetto di riciclo e riuso. Già in passato, abbiamo esercitato questa pratica. Se pensiamo al materiale lapideo del Colosseo – come il marmo che rivestiva l’edificio – diventato una cava di pietra per gli architetti romani del rinascimento. Esempi di questo tipo ne troveremo in ogni epoca e il rapporto tra ciò che è diventato scarto e la possibilità di riutilizzarlo nel ciclo produttivo, diventa il campo di azione di questa riflessione.

E’ utile premettere che la natura e l’uomo producono innumerevoli scarti, che rientrano nel ciclo produttivo in due modi: naturalmente e artificialmente, attraverso processi. Gli scarti prodotti dall’uomo si definiscono materie seconde per distinguerle dalle materie prime. Nella “cisterna basilica” di Giustiniano del 565 a Istambul, i capitelli romani trovano nuova collocazione alla base delle colonne, determinando un nuovo scenario – e meta turistica straordinaria. In questo caso le materie seconde (i capitelli romani) diventano – in una diversa epoca – materia prima.

E’ questa la chiave di lettura per riconfigurare il nostro “modus operandi” rispetto al futuro che ci aspetta. Consapevoli della necessità di non sprecare risorse per “curare e coltivare la terra”, per non compromettere il fragile equilibrio tra l’ambiente e il suo sfruttamento. Ed è per questo che il Papa ha più volte “raccomandato” gli uomini e le donne del pianeta, ad essere ecologici e non ecologisti sostenendo il paradigma sia sul piano etico che teologico, considerando la tecnologia e la scienza a servizio della tutela del pianeta. (cit. Laudato Sii, enciclica del Papa)

Ma quali sono gli elementi su cui fondare un piano operativo locale. Evitando di pensare che la questione sia solo da definire alla scala planetaria? (necessario ma non sufficiente). La prima cosa da fare è uscire dalla tenaglia delle mafie che condiziona i processi (terra dei fuochi, burocrazia appiccicosa, mediocrazia, corruzione degli attori della filiera ecc.).

Sul piano politico e metodologico, vanno fatte delle considerazioni di massima che meriterebbero un approfondimento.

La filiera corta, cioè la definizione di un percorso breve tra scarto e suo utilizzo, è indispensabile. In questo senso è necessario incentivare, sostenere e promuovere le attività industriali e artigianali che localizzano in questo territorio le attività trasformative. La carta può diventare – a basso costo energetico e tecnologico – un materiale per l’isolamento termico degli edifici, nuovi e da recuperare. Il suo valore di isolamento termico è superiore ai prodotti industriali-chimici che esportiamo da territori lontani.

La scala d’intervento è quella distrettuale locale. La micro-scala, che garantisce il controllo e la verifica dei processi direttamente, riduce i costi di trasporto e di logistica rendendo la popolazione responsabile e protagonista del proprio impegno. Voglio vedere cosa succede alla porzione umida del mio rifiuto, capire a cosa serve e a chi serve, questo aumenta la mia motivazione alla differenziata.

La scuola deve essere centrale nel progetto educativo, formando nuovi cittadini responsabili, che ri-usano ogni materia seconda in forma creativa e artistica. Credo che in questo senso le scuole – di ogni ordine e grado – hanno una grande opportunità. Rigenerando spazi, oggetti, materia e saperi, rendendo verticale la didattica (dalle primarie alle secondarie fino all’università e agli istituti di ricerca). Fare città, pensare la città, costruire comunità. Non è uno slogan scandinavo ma la necessità di questo tempo in questo luogo.

L’architettura e il design possono e devono dare un contributo determinante. Alcune esperienze sono state vissute e altre devono ancora venire ma l’importante è il collegamento con il tessuto politico, imprenditoriale e sociale del territorio. Anche lavorando su pochi progetti pilota. La plastica da riciclare può sostenere aziende locali, impegnate per la realizzazione di contenitori per raccogliere i prodotti agricoli (cit. P. Cirino).

Quindi un progetto complesso, articolato, proiettato nel futuro, che usa l’innovazione e la tradizione. Un cambio di passo e un modo diverso di configurare il tema dei rifiuti zero. Coca Cola zero, prodotti agricoli a Km 0, architettura sempre a Km zero, ma senza un progetto di sistema – al centro di quali devo esserci: scuola, enti locali, aziende, società, professioni ecc. – non è possibile fare nulla se non demagogia.

Serve un tavolo per definire un progetto di sistema e non per occupare spazi di potere autoreferenziali (cosa che spesso avviene in buona fede). Tutto questo può essere uno dei temi di approfondimento afferenti alla pianificazione comunale o comprensoriale.

Tutta colpa di Duchamp, di quel folle dadaista che diede nuova vita e funzione ad un oggetto morto, che aveva perso le sue attitudini. L’arte insegna e all’arte possiamo tornare, pensando a una convenzione con l’università, l’accademia e alcune aziende per localizzare in questo distretto agricolo un polo di ricerca per “rifiutare” le mafie. Tutte. E per creare una nuova economia: giovane, smart, solidale, etica e “bella”. Perché, al di là della crisi, dobbiamo pensare nuovi orizzonti di bellezza”. (cit. Zygmunt Bauman,‎ Ágnes Heller)

Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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