Il “Ricordo Pasquale” di Carmeni, giornalista e scrittore che amava la sua Paternò

Le tradizioni della Pasqua paternese, attraverso le opere d’arte e le rime delle poesie. Suggestive sono le foto del Venerdì dell’Addolorata e quelle del Venerdì Santo che molti amatori dell’obiettivo, puntuali ogni anno, ripropongono anche attraverso i social.
Ma sempre più difficile è trovare poesie e scritti che illustri paternesi nel tempo hanno lasciato a memoria delle tradizioni paternesi. Tempo addietro, con l’amico Pippo Virgillito, storico e componente illustre di Sicilia Antica abbiamo voluto riprendere una poesia scritta dal paternese Nunzio Carmeni “Ricordo Pasquale”.
“Non ho conosciuto Nunzio Carmeni, – dice Pippo Virgillito –  ma per fortuna ce lo fa conoscere Barbarino Conti. Carmeni era figlio di questa terra: a soli 22 anni per il servizio di leva va a Trento. Lì si stabilisce anche dopo la guerra, trova moglie e vi rimane come insegnante per poi divenire preside. E’ giornalista, scrittore, critico letterario. Immensa la sua attività, tra cui, tiene rubriche radiofoniche per la Rai regionale di Trento. Mentre sui muri la gente comune dopo l’Unità d’Italia scriveva “abbasso i terroni”, Nunzio Carmeni, sottolineava Conti, era un siciliano purosangue che insegnava, circondato di stima dagli alunni e di tutto il paese”. 
 
Il ruolo dello storico e dell’archeologo, è quello di mettere in connessione il presente con il passato. Perché è bella questa poesia? “Le nuove generazioni potrebbero non comprenderla a fondo; la Settimana Santa che si vive a Paternò, ha subito nel tempo delle amputazioni. Carmeni ci restituisce, come una vecchia fotografia in bianco e nero, la processione del Venerdì Santo con i canonici e le cappe. E poi una Domenica di Risurrezione di altri tempi. E’ una bella dedica quella che Carmeni fa al suo paese natale. Certamente è uno scritto di altissimo valore letterario, oltre alla testimonianza che lo stesso ci restituisce. Una buona occasione per rileggere, conservare e divulgare”.
 
 RICORDO PASQUALE di Nunzio Carmeni
 
La sera è salda alle case
livida colata di tenebre
compatta.
Non un lume per le strade
nelle case senza nessuno
nel verde cupo del cielo.
Non un suono
                prima che giunga la salmodia della processione
                e lo scoppio delle fiaccole
                frementi e luminose
                incida
                a tagli d’ombra
                in rosso e giallo sui muri balenanti
                la folla assiepata in attesa
                lungo i marciapiedi di questo budello di strada.
Con l’alfiere portastendardo
della Compagnia della Buona Morte
in elmo e corazza e gonnellino corto
come un paladino carolingio
avanza
l’uomo rosso dal grande tamburo
– lo batte a lunghe percussioni d’agonia –
                 e, dietro,
                 la doppia fila degli Incappucciati
                 in bianco saio dalla testa ai piedi
                 come fantasmi
– due buchi neri
per vedere
ed il cilicio ai fianchi
per significare.
                 Avanza la schiera delle fanciulle e dei fanciulli
                 coi simboli del Tormento
– corone di spine alle teste moresche
e nelle mani le Croci
le Scale di deposizione
i Chiodi a largo cuneo
della Crocefissione
i crotali di canna a gracidare.
                 A testa bassa in cappucci d’ermellino trascinano i canonici
                le cappe viola dalle code lunghissime
                e passa nella bara di vetro
                la spettrale magrezza di Cristo stagnata di sangue
                fra caldi odori d’incenso
               d’umide erbe sepolcrali.
                L’Addolorata dal manto di lutto
                protende in avanti l’offerta
               sulle candide mani
               del cuore sfondato da sette lame lucenti.
Si curva la folla in ginocchio
con l’anima nel rito non più rito
non più antica Sacra
Rappresentazione
tradizionale spettacolo saputo
ma dramma a misura di croce
ma ferita slabbrata
nella carne originaria
dal giorno nel quale fu detto
Con la luce sia Tempo
e col Tempo il Dolore”.
– Dilaga dalla cerchia delle case
nella piana d’erbe e frutteti e mandorli in fiore
all’orizzonte laccato
il bruno mare dei giardini
attorno al Castello Normanno
quadrato
nel cielo della rupe venato
dall’oro caldo dei cedri
e delle arance
tra il Convento spezzato
il cimitero arioso, la tozza antichissima mole
della Chiesa Madre,
              fra poco scioglieranno le campane
              del Sabato di Resurrezione.
– Il sagrestano alle corde proteso al segnale
col panno rosso in mano un altro all’ogiva
fra il triangolo del tetto e il rosone strombato
per l’annuncio
da quel punto di zenit alla valle che attende
alle sue chiese raccolte
all’imminenza del grido.
              Alla Grande Porta ramata di muffe l’Officiante ha picchiato
             da dietro hanno detto parole e la Porta s’è aperta
             frusciando. 
Dall’anfiteatro del coro
e dalle panche di noce tarlata
pregano i cori fra nubi d’incensi
e luci iridanti che spiovano
dai mosaici delle vetrate
come da nubi spaccate colonne di sole
ed al primo scoccare della campana che squilla
ognuno è faccia a terra a baciare il pavimento
ilare e fremente nello scoppio di grazia
– La ceramica ha l’acre sapore di vetro del limone.
            E l’uomo della strada
            l’uomo della campagna
            ognuno e dovunque
            per fango e polvere che sia s’è steso a baciarla
            la terra
            è risorto fratello a baciare il fratello.
           Da tutto il paese si spara al cielo che scampana
           da finestre e balconi argille di anfore e pentole
           si scaricano in gara
           a sbriciolarsi allegre sul selciato
           E non butterò anch’io
           dalla vecchia finestra dell’animo
           le vecchie cose inutili e amare
           accumulate agli angoli scuri
           in quell’allegra follia?
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Riguardo l'autore Alfio Cartalemi

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