Politiche. Nuovi paradigmi per la ri-localizzazione della produzione

In queste settimane, irrompe – nel dibattito politico nazionale – la notizia dei continui licenziamenti da parte di note aziende del settore industriale e non solo. Licenziamenti dalle proporzioni bibliche, compensate – in parte – dalla crescita del lavoro interinale e a progetto, che certamente aiuta, ma non rassicura i lavoratori. A questi si aggiungono altre storie, non meno drammatiche, che riguardano altri settori produttivi, dai call-center (QE’ per esempio) alle banche; dalle fabbriche ai servizi socio assistenziali (Salvatore Bellia per esempio).

Licenziamenti, ri-dimensionamenti, ristrutturazioni aziendali, sofferenze finanziarie, ecc. Le cause sono tante, ma quella su cui vogliamo riflettere è il fenomeno della de-localizzazione. In pratica, localizzare altrove qualcosa che è radicato in un territorio. Come se tutte produzioni di beni e servizi per l’uomo (che vive un luogo) si possano localizzare altrove, separando la produzione, dalle radici culturali, sociali, storiche e logistiche a cui esse sono legate. Come se volessimo produrre un buon vino, con un preciso vitigno e terroir, dalla pendici dell’Etna (Italia) alle pendici del Changbaishan (Cina) come se niente fosse. E’ la logica della produzione “atopica” che nega il legame originale tra chi produce e dove produce. Sono queste le vere ragioni di molti licenziamenti?

Il punto è che la delocalizzazione (che non è decentramento), produce disoccupazione. Le aziende, spostano altrove la produzione per abbassare i costi di produzione – costo del lavoro, fiscalità e infrastrutture – mantenendo o implementando l’utile di impresa. Questo principio è applicato a qualsiasi produzione di beni e servizi, pertanto è più conveniente produrre le macchine in Polonia, i pomodorini in Cina, l’olio in Tunisia, e cosi via per tanti prodotti, persino i call-center che risultano più convenienti in Albania e Romania.

Se per alcune categorie merceologiche, potrebbe essere naturale delocalizzare, (la coca cola americana, produce nei luoghi in cui avviene il consumo), per altre è veramente incomprensibile e moralmente discutibile.

Anche per alcuni servizi essenziali, come le prestazioni mediche, si assiste alla delocalizzazione – se pensiamo all’esperienza di molti ospedali siciliani che vengono forzatamente accentrati. Sul piano filosofico, delocalizzare è una modalità piuttosto articolata. Delocalizziamo in molti campi generando distorsioni al sistema. Delocalizziamo i politici, nel senso che spesso non esiste il rapporto tra territorio e rappresentante politico storcendo l’essenza stessa del concetto di rappresentatività. Delocalizziamo i rifiuti, nel senso che concentriamo altrove – a tutto vantaggio di chi gestisce la filiera – gli scarti, producendo due effetti: spostiamo il problema dello smaltimento dal nostro orto a quello di un altro e concentriamo gli effetti negativi su un’area che non può sostenere gli effetti negativi dello smaltimento. Delocalizziamo le idee, quando i nostri giovani vanno via dalle nostre città. Forse anche il fenomeno dell’immigrazione è un fenomeno di delocalizzazione delle risorse umane, (e qui si dovrebbe fare un’altra riflessione). Delocalizzare i capitali, nei paesi con una fiscalità più vantaggiosa (qualcuno delocalizza persino i brand per lo stesso motivo). Recentemente qualcuno vuole persino delocalizzare la Venere di Morgantina, oppure i reperti archeologici in genere con mostre distanti dal luogo di provenienza. Insomma, la delocalizzazione è il virus che sta infettando le nostre economie. Le rivoluzioni industriali ci avevano insegnato altro. Due esempi in ambito locale: i mulini ad acqua e le “carcare”. Due filiere produttive che non possono prescindere dalle risorse del luogo. L’acqua e l’argilla, la farina e i mattoni. La delocalizzazione ha prodotto il fenomeno della filiera lunga e oggi siamo tutti concentrati al KM 0, alla filiera corta. Ma come fare per invertire il processo?

Bisogna incidere su alcune voci del sistema: costo del lavoro, fiscalità e infrastrutture, puntando sulla semplificazione, sulla sicurezza ed eventualmente sul decentramento. Questi gli attrattori per rigenerare il paesaggio produttivo di beni e servizi. Ma tutto questo non ha senso se non è accompagnato da una rete della mobilità che sostiene i processi. Torniamo spesso a parlare di questo tema ma è il presupposto per parlare di sviluppo, di rigenerazione, di sostenibilità.

A marzo, si celebrano le politiche nazionali e il paese vuole una classe politica consapevole dei veri problemi dei territori. Rappresentativa di istanze specifiche e generali. Attenta alle dinamiche del mercato e sensibile all’innovazione. Soprattutto impegnata ad accorciare il divario tra nord e sud, tra Europa e Sicilia, tra aree interne e costiere. Come fare? Forse attivando politiche economiche e infrastrutturali che diminuiscano la delocalizzazione. Come fecero i normanni in Sicilia. Mettendo nelle condizioni, il tessuto produttivo locale di ritrovare le ragioni per restare, per consolidare, per rilanciare.

Il nostro territorio ha una zona industriale-artigianale mai compiuta, potenzialmente connessa con l’interporto di Catania ma di fatto abbandonata a se stessa. Una ferrovia dismessa, in disuso, che accompagnata da politiche di fiscalità di vantaggio può rilanciare il distretto agro-industriale. I nostri contadini sono tagliati fuori dai circuiti commerciali europei per mancanza di connessione infrastrutturale (la ferrovia) per mancanza di visione strategica di sistema. Solo attraverso il superamento dei “fumosi e inconcludenti estremismi” come dice Di Guardo (sindaco di Misterbianco), e aggiungo, con una maggiore consapevolezza da parte della classe politica, che bisogna riconquistare il territorio del fare, del programmare, del pianificare, del progettare, dell’ascoltare i bisogni reali – persino attraversando gli spazi dell’utopia – come fecero i nostri politici negli anni ’60. La politica deve ritrovare le ragioni della sua centralità a partire dalle idee, dai valori, dalla visioni. Delocalizzare non è la soluzione, è una delle cause della crisi strutturale del Paese. Gli imprenditori e la società vogliono politiche finalizzate ad abbassare il costo del lavoro, fiscalità e infrastrutture, oltre che semplificazione e sicurezza, anche in questi territori che aspettano da anni. A marzo, vogliamo i politici impegnati in questo senso e non il risultato di esperimenti di palazzo, in cui prevale la persona invece che l’idea. Ri-localizzare le produzioni per uscire dalla crisi e per questo bisogna attivare politiche e non il politichese.

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Riguardo l'autore Francesco Finocchiaro

Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Vive il suo lavoro come una grande passione . Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, di Pablo Neruda, Lucía Etxebarria e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor.

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